Tenerezza, allegria e indignazione: antidoti alla violenza
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L’agitazione che si percepiva all’interno della Defensoría de la Mujer I’x nei giorni precedenti l’Interregional de sanación lasciava presagire che si trattasse di qualcosa di importante, di significativo; ma noi, volontarie appena arrivate a Nebaj e non ancora pienamente in contatto con l’energia e il fermento organizzativo del nostro futuro luogo di lavoro e delle donne che lo abitano, non siamo riuscite ad apprezzarne realmente l’entità, sino al giorno d’inizio dell’evento.

Questo incontro di donne, defensoras provenienti da diverse regioni del Guatemala e del Centroamerica, organizzato dalla Red de Mujeres Ixhiles, è stato il nostro personale rito di passaggio, ciò che ci ha permesso di entrare nel vivo del contesto locale offrendoci una visione più ampia delle lotte che le compagne portano avanti nei rispettivi territori.

Ci ha offerto, inoltre, una chiave di lettura e un primo approccio alla sanación, una pratica realizzata con frequenza nelle organizzazioni locali di donne, cui abbiamo partecipato in forme e con risultati differenti nel corso della nostra permanenza a Nebaj

Lo scopo di queste attività, proposte esclusivamente a donne, è quello di costituirsi come spazi protetti dove prendersi cura di se stesse e delle compagne, raccontare e raccontarsi in libertà, riconoscendo la legittimità e l’unicità esemplare dei propri vissuti e della propria voce.

Queste giornate rappresentano un ambito libero e sicuro anche per rilassarsi, per mettere da parte per un po’ le incombenze domestiche e i tanti impegni familiari.

Come abbiamo potuto apprezzare da questo incontro interregionale, le sanaciones non sono solo spazi di condivisione, ma anche percorsi di formazione e di coscientizzazione, in cui saperi e pratiche ancestrali si mescolano a discorsi e concetti provenienti da altri contesti.

Operatori verifica

La mattina del primo giorno, dopo aver sbrigato le necessarie procedure di registrazione delle partecipanti, l’attività è stata inaugurata da un cerchio di donne unite intorno a un fuoco sacro.

Ogni elemento delle complesse coreografie e iconografie dell’evento era trasposizione diretta di un sistema di simboli legati alla cosmovisione e alla sabeduría (sapienza) ancestrale maya, per noi ancora nascosto o di difficile decifrazione.

La sanadora, al centro del cerchio, ha dichiarato senza timore lo scopo della giornata: un vero e proprio atto di lotta comunitaria e “di genere” contro il sistema patriarcale, capitalista, coloniale, razzista, per la difesa del nostro corpo-territorio.

Il corpo e il territorio si intrecciano e si fondono in un unico spazio simbolico di resistenza a un’oppressione che ha avuto inizio in maniera sistematica con l’invasione spagnola ma che, secondo le teoriche del ‘femminismo comunitario’, ha radici più lontane e profonde.

In Mesoamerica, affermano, il patriarcato è particolarmente incorporato nel sistema sociale in quanto si è consolidato storicamente grazie all’incontro di tre diversi poteri: il machismo indigeno, quello coloniale, e quello africano.

Nella particolare struttura di dominio che si è creata a partire dall’istituzione della colonia e si è poi perpetuata nella storia recente dello Stato-nazione guatemalteco, piegato da un conflitto armato interno durato 36 anni, è emersa la categoria di “altro” come corpo definito razzialmente, dominato e, nel caso specifico del corpo femminile, violentato e offeso.

“L’Interregional de sanación” ci ha posto dunque di fronte alla necessità politica di riflettere su cosa significa sanare il corpo-territorio oppresso, umiliato e calpestato in un contesto post-conflittuale, caratterizzato da forti disuguaglianze e dalla diffusione capillare di una forma socializzata di machismo.

Significa fare pace con la propria storia, che non si ferma unicamente al vissuto individuale ma è familiare e collettiva, e in questo modo recuperare e tramandare la memoria storica dal peculiare punto di vista delle donne.

Sanare significa portare a galla le emozioni, lasciarle fluire, impregnarsi delle sensazioni positive e liberarsi di quelle negative che continuano a generare dolore, non per dimenticare quanto accaduto, ma per poterne parlare con energia e consapevolezza rinnovate.

È dunque proprio il corpo, in ogni sua forma e interpretazione, a essere posto al centro, insieme soggetto e oggetto della sanación.

Tra noi si è creato un sentimento difficilmente descrivibile, a metà tra ammirazione e sorpresa, quando la sanadora, a partire dall’accorata testimonianza di una compagna, ha iniziato a introdurre il concetto di “corpi plurali”, corpi che sfuggono alla categorizzazione binaria maschile/femminile e si esprimono in forme e combinazioni differenti.

Spesso la comprensione dei medesimi concetti ha richiesto un’ulteriore fase di chiarimento nella traduzione dal castigliano all’ixil, la lingua locale, attraverso metafore ed esemplificazioni.

La pratica della sanación ha quindi affiancato alla verbalizzazione un progressivo (ri)avvicinamento ai nostri corpi: li abbiamo guardati, toccati, sentiti, massaggiati con oli essenziali ed erbe curative.

Abbiamo preso coscienza delle varie parti: la fronte, la schiena, lo stomaco, il collo, le ascelle, le gambe, fino ad arrivare a distinguere, con l’aiuto di alcune comadronas (ostetriche), le nostre ovaie e il nostro utero.

Ci siamo focalizzate poi su quelle parti in cui sentiamo dolore: «Il corpo parla sempre» dice la sanadora, «se ci sono tensioni significa che ci sta dicendo qualcosa».

Attraverso la partecipazione, il coinvolgimento e l’esperienza, anche per noi volontarie la sanación è diventata, nel tempo, un processo trasformativo, un guardarsi allo specchio e scoprire le nostre debolezze, i nostri pregiudizi, fare i conti con le nostre paure e con le cose non dette e imparare ad affrontarle, per riaprire gli occhi e vedersi più forti, più consapevoli, più unite.

Uno degli aspetti centrali della sanación, così come è concepita in questo contesto, è infatti il suo essere un processo collettivo.

La condivisione e l’ascolto profondo delle compagne permettono non solo di relativizzare il proprio vissuto, ma anche di rapportarsi a una modalità differente e non eurocentrica di concepire il nostro essere nel mondo, non come individui ma come “dividui” o “condividui”, esseri plurali, come somma della storia collettiva e delle relazioni che hanno costellato il nostro cammino.

Ma la lezione più importante che abbiamo appreso in quei due giorni è forse l’invito che la sanadora ha rivolto a tutte nel cerchio conclusivo, disarmante nella sua semplicità eppure così complesso da mettere in pratica: «Dobbiamo sanare con la tenerezza e conservare l’allegria come antidoto alla violenza, senza mai perdere l’indignazione».

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