A Sevaré, un anno dopo.

Sento un po’ di nervosismo alla partenza da Ouahigouya, lo ammetto, ma in fondo ci siamo informati attentamente con i colleghi in Burkina e in Mali sulla fattibilità della cosa. Se ci fosse stato qualche problema mi avrebbero fermata, mi dico.

Poi comincio a vedere le prime facce note, i primi paesaggi conosciuti, e ritrovo la tranquillità di casa, quella che mi faceva sentire al sicuro anche dopo l’inizio dei primi problemi a dicembre 2011. Come potrebbe essere altrimenti, vedendo d’un colpo apparire l’immensa falesia: renderebbe difficile la fuga di qualsiasi malintenzionato, mi dico.

“Vedervi qui [voi bianchi] significa che ora non c’è più pericolo; voi avete informazioni che noi non abbiamo”, mi dice un signore seduto davanti al cancello dell’AOPP, partner storico della CISV Mali, a Koro, mentre io cerco inutilmente di negare, poiché le informazioni che mi hanno permesso di essere lì, in quel momento, ce le hanno date le forze dell’ordine locali.

Arriviamo a Sevaré quando si fa buio. Al primo colpo d’occhio nell’attraversarla mi sembra che nulla sia cambiato, a parte la notevole presenza militare per le strade. Ma Ablo, l’autista CISV che mi ha accompagnata da Ouahigouya fin qui, mi avverte: “non vedrai più tutti i garibu (gli allievi dei marabut che chiedono l’elemosina per strada) che c’erano una volta”. La sera li sentivo sempre leggere il Corano ad alta voce sotto i lampioni mentre andavo a comprare il pane. “Solo i più piccoli sono rimasti…”. Di cadaveri ne ha visti Ablo, lui come gli altri abitanti del paese, cadaveri di militari e cadaveri provocati dai militari. “In una guerra è difficile distinguere innocenti da colpevoli” tenta di minimizzare qualcuno, “ma ora è tutto tranquillo, non abbiamo più paura” mi racconta il peulh che vende le coperte tipiche ai turisti e che era immancabile davanti al nostro ufficio fino a un anno fa, quando ancora ospitava in permanenza dei bianchi possibili acquirenti.

Sono venuta a Sevaré in occasione dell’Atelier di riflessione sulla gestione del sistema fondiario agropastorale organizzato nell’ambito del progetto multi paese su cui lavoro. L’occasione per vedere in una sola volta tanti dei partner delle organizzazioni contadine locali che non vedo da tempo; l’occasione per avere una visione un po’ più chiara della situazione grazie a tanti punti di vista da raccogliere.

La campagna di vaccinazione del bestiame nella regione di Mopti quest’anno è arrivata a coprire solo il 60% degli animali. E questo è stato possibile solo grazie all’aiuto del CICR (Comitato Internazionale della Croce Rossa) e di agenti statali e ausiliari veterinari che si sono messi in gioco anche se non esiste più l’amministrazione nella zona, mi dice il Direttore regionale dei Servizi Veterinari quasi zittendo il suo orgoglio: non è normale per la regione che conta il maggior numero di capi di bovini, capre e pecore di tutto il paese avere un tasso di vaccinazione così basso. Contano ancora di rimediare e cercano aiuti per fare di più, non è ancora tardi.

L’Atelier comincia, si parla anche qua di conflitti, ma di quelli per il fondiario: di questi si può parlare senza troppa paura, anzi, si deve parlare, e lo si fa animatamente in sottogruppi di lavoro. “Per una gestione concertata del sistema fondiario nella pace e nel rispetto delle leggi”, dice la presentazione. Ma una volta si riusciva a trovare una soluzione discutendone sotto un touguna (la tettoia tipica dei paesi Dogon sotto la quale gli anziani si trovavano ogni giorno per discutere dei problemi della comunità); oggi, invece, è tutto più complicato. La legge lascia spazio a troppe interpretazioni e “Spesso anche portare il problema davanti alla giustizia arriva sì a condannare, ma non a risolvere davvero il problema”, sostiene il giudice di Mopti. Sembra incredibile: così pochi abitanti per Km2 e così tanti problemi di fondiario; forse solo così ci si rende bene conto di quanto sia essenziale l’accesso alla terra per l’economia e la sopravvivenza della maggioranza della popolazione e quanto attuale sia il problema dell’accaparramento delle terre, problema per il quale l’AOPP è una delle associazioni più attive in Mali.

“La terra appartiene a una vasta famiglia di cui molti membri sono morti, pochi sopravvivono e numerosi sono quelli che devono ancora nascere” dice un proverbio sul libro dell’università che il tecnico dei Servizi regionali dell’Agricoltura si è portato dietro per l’occasione; “A ognuno la sua Bibbia”, dice il tecnico del Servizio Demaniale con in mano il Codice demaniale da cui, dice, non si separa mai. A ribadire che tradizione e procedure legali moderne, quaggiù, devono per forza coesistere e trovare un equilibrio.

Numerose raccomandazioni sono state elaborate alla fine di questi due giorni di lavoro in atelier. Raccomandazioni che vanno da una partecipazione più attiva delle associazioni contadine e pastorali alla fase di dialogo politico nell’ambito dell’elaborazione della nuova Politica Fondiaria Agricola a una partecipazione civile più attiva anche a livello locale, attraverso la conoscenza dei testi legislativi e il rispetto, allo stesso tempo, delle procedure tradizionali per accedere alla terra; perché è da qui, dal rispetto della cultura tradizionale, che si deve ripartire per evitare di arrivare al conflitto.

La sera torno con la mente al conflitto nel Nord del paese visitando il sito di RFI (Radio France International): c’è scritto che l’UE formerà, a partire da aprile, 650 soldati maliani alla scuola militare di Koulikoro, a una sessantina di Km da Bamako. La CISV ha cominciato a lavorare a Koulikoro da poche settimane, in un progetto finanziato dalla FAO per la creazione di 14 perimetri di orticoltura. È bello poter continuare a lanciare un messaggio di normalità a fianco di truppe che si esercitano. Si parla solo di loro, ormai, di soldati, maliani, francesi, ciadiani, togolesi, senegalesi, e non più dei contadini maliani che si preparano ad affrontare la loro battaglia annuale contro la stagione secca e l’attesa dei primi raccolti.

E poi arriva il giorno della partenza: troppo lunga l’assenza da Sevaré, troppo rapido il soggiorno una volta tornataci. Appena usciti dalla città ci troviamo davanti un convoglio di mezzi blindati dell’esercito togolese che va avanti al rallentatore. “Non lo possiamo superare”, sostiene l’autista. Poco dopo per fortuna si fermano e possiamo passare. Arrivati a livello della prima auto vediamo militari in posa con la propria arma e un uomo vestito con la mimetica e con una macchina fotografica professionale che scatta loro delle foto. Ok, se i militari si danno ai reportage fotografici vuol dire che la situazione è davvero tranquilla, ormai, qui a Mopti, mi dico.

Anna Calavita