29 ottobre 2024.
La sveglia suona presto, troppo presto. C’è anche da dire che ci siamo messɜ a letto ad un orario impensabile per i ritmi italiani, ma molto in linea con lo stile guatemalteco. Dal momento che fa buio molto presto, non rimane molto da fare, quindi si predilige il riposo ad altre attività, che trovano il loro spazio durante le ore di luce. Piccola divagazione. Dicevamo. 29 ottobre 2024. Alle 7 usciamo di casa, e Isa, la nostra “mamma guatemalteca”, ci fa le ultime raccomandazioni prima della partenza. Ah, la famiglia, che concetto universale. C’è un piacere in questo però. Camminiamo i soliti 25 minuti per arrivare in centro, con la differenza che oggi io e Francesca siamo accompagnate da 10 kg di zaino e dalla presenza dellɜ altrɜ volontariɜ che lavorano a Totonicapan. Arrivatɜ al terminal troviamo Cat e Checha, i nostri punti di riferimento qua a Nebaj, nonché nostrɜ amicɜ.
Ad attenderci uno dei mezzi di trasporto più comuni e più scomodi del Guatemala: i microbus. Sono dei piccoli furgoncini da 16 posti in cui però vale la regola del “se ci stiamo in 16 possiamo starci anche in 32”. E come dargli torto. Effettivamente, non si sa come, ci si sta sempre. E uno spazio si trova sempre. Stranamente oggi il nostro micro bus per Acul è abbastanza vuoto, così riusciamo a fare il viaggio sedutɜ. In 30 minuti siamo ad Acul, la svizzera del Quiché. Caratteristica. Soprattutto per il suo delizioso formaggio. Secondo ed ultimo mezzo di trasposto della giornata: un Tuc Tuc. Un Tuc Tuc in 6. Questa volta non molto comodo. Però è bella la sensazione dell’aria nei capelli, fa molto film retrò. Arriviamo finalmente al nostro punto di partenza, Xexuxcap, e iniziamo a camminare. Dopo il primo passo, incrociamo un signore che con il suo machete e tutta la nonchalance del mondo ci racconta che lui quel cammino lo fa tutti i giorni. “Ci vediamo su!”, dice, mentre a passo svelto ci supera. È interessante il contrasto tra la nostra concezione di “trekking” e ciò che per le persone del posto diventa una necessità. Infatti per arrivare alla comunità che ci ospiterà per la notte si possono usare solo i piedi o i cavalli o gli asini. Piacere vs obbligazione. Procediamo a passo lento. I nostri zaini ci rallentano. Non appena ci addentriamo nella montagna, mi ricordo la raccomandazione di Isa: chiedere il permesso alla montagna. Sembra assurdo detto così, ma se ci pensiamo ha un senso. E vi dirò, oltre ad avere chiesto il permesso alla montagna per poter entrare e calpestare la sua terra, ci è uscito anche un dialogo molto profondo. È difficile forse per noi occidentali concepire una cosa del genere, ma una volta qua vi assicuro che le energie emergono e si manifestano in diversi modi. E bisogna rispettarle. Saliamo un passo alla volta, il sole ci accompagna, ci scalda, è quasi piacevole questa fatica. Facciamo la prima pausa vicino ad un fiume. Tiriamo fuori enormi quantità di cibo, e paradossalmente è la ragazza scozzese a tirar fuori la moka. Ah, anche questi piaceri sono universali forse. Dopo aver mangiato mettiamo i piedi e la gambe a bagno nel fiume. Si sente la vita. Da lontano due cani ci osservano. Hanno fame, come molti cani di strada che ci sono qua. Gli diamo qualcosa e sono subito molto riconoscenti.
Dall’altra parte della strada una signora anziana sta tagliando la milpa, le pannocchie giganti che coltivano. È incredibilmente forte ed i suoi movimenti con il machete sono ipnotici. È tempo di riprendere. Passiamo per altri campi, asini, strade strette in salita, strade larghe in salita, fino a che non arriviamo ad un bosco fatato. Incantato. Non ci sono altre parole per descriverlo. Alberi altissimi avvolti dalla nebbia ma colpiti dai raggi del sole. Una proiezione onirica. Poi, il pranzo. Anche questo onirico, per un certo verso. E ovviamente, piove. Vediamo una famiglia salire su. Che amabili. C’è tanta autenticità e gentilezza. Ancora salita, fino a che arriviamo ad un cimitero di pietre. Non è un vero cimitero, ma la sensazione di pace è quella. Una signora pascola le capre con i suoi figli che corrono. Ogni tanto li rincorre. Ogni tanto rincorre le capre. Un signore porta sulle spalle un pezzo di legno lungo almeno 3 metri. Nonostante la fatica, si ferma a parlare. Incredibilmente conosce il fuso orario dell’Italia. Dice che cerca le cose che lo incuriosiscono su internet.
Ultima mezz’ora di camminata e arriviamo alla comunità, avvoltɜ dal silenzio di un posto remoto, fermo nel tempo. Ci sono poche case sparse su prati curati. Tetti di lamiera. Pareti di legno. Esce il fumo delle stufe. Ci accoglie Don Domingo, il padrone di casa. Ci accompagna nella nostra stanza: un sacco di materassi ed un sacco di coperte. Mi chiedo come facciano a vivere con il freddo tutto il tempo. Abitudine. Il bagno è una latrina a circa 300 metri dalla stanza. Non molto invitante, però è simpatica. Sistemiamo le nostre cose e andiamo in cucina, dove troviamo la famiglia intorno al fuoco acceso, e tutte le parti di un agnello sventrato appese sopra le nostre teste per farle essiccare. La nonna e la nipote sono silenziose, il protagonista è il fuoco. Punto nevralgico delle loro vite. Scalda e nutre. Raccoglie. Dopo la cena ci prepariamo per il temazcal: una sorta di bagno turco rituale e quotidiano. È una stanzina di cemento in cui si scalda l’acqua in un pentolone sulle braci accese. E poi ci si lava con una bacinella. Nelle comunità il temazcal è molto basso e molto caldo. Noi siamo abituate a dimensioni diverse qui a Nebaj, infatti è un esperienza un po’ meno rilassante del solito. Anche qua, rispettiamo il ciclo del giorno, e alle 21 chiudiamo gli occhi.
Sopravviviamo alla fredda notte ed andiamo subito in cucina a scaldarci. È bello arrivare e trovare la colazione pronta ed il fuoco nuovamente pronto ad accoglierci.
Siamo prontɜ per questa seconda giornata.
Il paesaggio è da urlo: in lontananza si vedono i vulcani e siamo circondatɜ da un sacco di rocce intagliate da vento e pioggia. Il sole ci illumina e il silenzio continua a risuonare prepotentemente. La definizione di pace. Facciamo un paio di kilometri ed arriviamo ad un campo di calcio ai piedi di un’altra comunità. È colmo di bambinɜ che giocano con la palla. Maschi e femmine. Con vestiti e scarpe non molto comodi, ma è indifferente. L’importante è giocare. Attraversiamo diverse comunità, una più bella dell’altra. Sicuramente sono influenzata da una visione romanticizzata del vivere isolatɜ. Per loro non deve essere facile. Però, mi sento comunque di dire che vivono più serenɜ delle persone che vivono a Nebaj, in un contesto rurale che è stato urbanizzato con la forza. È pieno di case di gringos, persone degli Stati Uniti che hanno molte proprietà in queste terre. Sono caratterizzate da colori appariscenti e fuori luogo ed un sacco di stelle sulle pareti. Molte sono disabitate. Arriviamo ad una comunità e in lontananza si sente una donna cantare a voce alta. È un canto misterioso ed affascinante. Ci sono delle risate. E ancora la sua voce. E lɜ bambinɜ che scivolano di corsa lungo la montagna. Abbiamo sbagliato cammino, e quindi per scendere al fiume dobbiamo discendere nella pura montagna. Tutta la piacevolezza della fatica scompare, e prevale il senso della paura. Non una paura razionale, una paura viscerale. La paura del perdersi e del non ritrovarsi. La paura dell’essere nulla in confronto a questo tutto, che è la natura. Ma tutto è bene ciò che finisce bene: arriviamo al fiume e alle pozze paradisiache. Siamo solɜ. C’è un ponte, instabile, ma tutto intorno il paesaggio è stabile, dà sicurezza, Al contrario di quello che si sente a volte qua in Guatemala.
Dopo questa discesa traumatica ci aspetta un’ascesa epica: fiori, farfalle, uccelli, colori variegati
Un esplosione di colori variegati
Si respira
Anche con il fiatone
L’ossigeno entra contento
È bello camminare
Un ultimo sforzo ed arriviamo alla strada in cui dobbiamo cercare un pick up che ci porti alla Ventosa, tappa notturna
Troviamo don Marcos che sta lavorando con i suoi cavalli
Dopo una contrattazione fallimentare prende il suo pickup e partiamo
Don Marcos ci racconta che a 13 anni ha provato per la prima volta ad entrare negli stati uniti
Ci riprova una seconda volta
La terza è quella buona
Una volta arrivato negli stati uniti deve lavorare 2 anni per ripagare il debito con i coyote, i “traghettatori” di persone
Poi è tornato in Guatemala, ma vorrebbe ritornare, perché dice che li ci sono più compagnie con cui lavorare e si può mangiare ciò che si vuole
Lui qui in Guatemala è con la sua famiglia e i suoi cavalli, ma quello che conta sono comunque i soldi e lo status e le comodità
Dopo tante altre chiacchiere arriviamo alla Ventosa, molto meno isolata rispetto all’altra comunità, per l’appunto qua passa addirittura una strada
La stanza è simile a quella della prima notte, e anche qua il bagno è distante, ad un attraversamento di strada
Questa volta la famiglia è più numerosa e meno silenziosa
Doña Verónica parla prevalentemente Mam, ma nonostante ciò riusciamo a comunicare, soprattutto attraverso i sorrisi e gli sguardi accoglienti
Doña Verónica ha 31 anni e un sacco di gioia di vivere
Doña Verónica ha 3 figli ed una figlia
Uno di loro, Timoteo, ci farà da guida il giorno successivo
Timoteo ha 11 anni
Ha 11 anni e lavora
Che gran tema, quello del lavoro minorile
Qua molti bambini lavorano fin da piccoli, e molti vengono sfruttati
Timoteo però fa un lavoro che gli piace: parla le lingue che vuole imparare, sale e scende dalla montagna, sta a contatto con tante persone diverse
Rimane comunque un grande conflitto morale in me
E come succede sempre in questi casi, mi prendo lo spazio per cercare di capire le complesse sfumature delle questioni, culturali e non
Tuttɜ lɜ figliɜ di doña Verónica sono super svegliɜ e gentili, questo perché doña Verónica dà loro molto amore ed affetto ed attenzioni e cura, cosa non troppo comune nelle famiglie guatemalteche
È bello avere intorno queste persone, mi danno un grande senso di famiglia, nuovamente
E nuovamente, ce n’è bisogno
Il temazcal di questa casa è costruito in maniera più funzionale, c’è una bella panca su cui sedersi, e mi godo finalmente un po’ di relax in solitaria
Spesso qua le famiglie lo fanno insieme, il temazcal
E viene usato anche per alcune cerimonie speciali, tipo durante la gravidanza delle donne e dopo il parto, quando le donne non possono lavarsi i capelli da sole quindi tutte le amiche vengono a casa per aiutarla
La notte è dura, fa davvero troppo freddo, sento di non aver dormito nulla
Però vedere Timoteo così entusiasta di accompagnarci mi fa venire voglia di camminare
Il paesaggio è totalmente diverso rispetto ai primi giorni
È un paesaggio marittimo
Sembra di essere in Sardegna
Più saliamo, più prevale questa flora contrastante
Arriviamo alla cima: 3800 metri
Wow, i nostri corpi ce l’hanno fatta
Nonostante la fatica, nonostante la nebbia, nonostante la diversa percezione del tempo
Quando chiedevamo a Timoteo e a suo cugino quanto mancasse, puntualmente rispondevano: ‘bhe una o due ore, forse tre’
Il tempo è indifferente
Non ha una forma
Non ha dei confini
Si vive e basta
E devo dire che questa concezione aiuta molto a noi povere persone occidentali vittime della fretta e del controllo
Dopo essere arrivatɜ nel punto più alto, tocca scendere
Una discesa oscura e contorta
Passando in un bosco tetro ed affascinante
Finalmente con le ginocchia ammaccate arriviamo alla Maceta. Un luogo sacro però contraddittorio
Si può percepire la pace e le energie della natura, però al tempo stesso è pieno di immondizia
Nonostante ciò, accendiamo le nostre candeline cerimoniali, quelle che vengono usate nelle cerimonie maya e che sono relazionate alla cosmovisione
Scendiamo ancora e finalmente arriviamo alla strada asfaltata
Salutiamo le nostre guide e saliamo su un piccolo bus come sempre pieno di gente
Appena partiamo, si buca una gomma, ma l’autista e il suo aiutante la cambiamo letteralmente in dieci minuti, senza neanche farci scendere
Nei mezzi di trasporto il tempo è decisamente scandito dalla fretta
In neanche trenta minuti approdiamo a Todos Santos
È molto impattante l’arrivo, perché dopo tre giorni di silenzio e tranquillità veniamo catapultatɜ in una realtà di festa estrema
C’è molto caos, tutte le persone sono in strada
È interessante perché a differenza di altri posti in Guatemala, dove solo le donne indossano l’indumentaria tipica, qua quasi tutti gli uomini e i bambini indossano pantaloni e camicia decorati a mano
I colori prevalenti sono il rosso e il viola
Un’altra cosa che sicuramente chiama la nostra attenzione è il livello di alcol che circola per le strade
Facciamo un giro per il centro, accompagnatɜ dal suono della marimba, strumento tradizionale ed allegro
Quando sorge il sole, ci mettiamo alla ricerca di una festa privata
Devo ammetterlo, avevo in mente un’altra aspettativa di festa
Dopo aver chiesto a varie persone, entriamo in un cortile di una casa, e lì finalmente troviamo quello che cerchiamo
È un ballo popolare, c’è un sacco di gente, musica, alcol, bambini, anziani, davvero di tutto
E poi, arriva il momento clou della serata: il ballo de Los Ginetes, che sarebbero gli uomini che il giorno dopo cavalcano i cavalli per la corsa
Adornati a festa, si scatenano in pista in un ballo eccentrico
Tutte le persone intorno accompagnano questo momento magico e assurdo con un sacco di entusiasmo, e anche qui, con un sacco di alcol
Rientriamo all’hotel e ci prepariamo per la notte
Ed eccoci finalmente arrivati all’evento che ci ha portato a todos santos: la corsa dei cavalli
È una tradizione un po’ complessa da capire per me, però è molto interessante vedere la partecipazione di un sacco di persone che vengono da tutto il Guatemala e addirittura dagli stati uniti per vedere e vivere questo momento
È un’espressione molto forte di identità culturale, e si può respirare tutta questa appartenenza
La tradizione consiste in questi uomini che tutti vestiti e ubriachi dal giorno prima salgono a cavallo e corrono avanti e indietro per 300 metri
Continuano a bere e a correre dalle 8 del mattino fino alle 16 del pomeriggio
Corrono finché qualcuno non cade
E se qualcuno muore, si dice che sia di buon auspicio per il raccolto dell’anno successivo
Poter cavalcare è visto come un onore, per questo la sera prima nella festa Los ginetes venivano celebrati così tanto
Non restiamo molto a vedere la corsa, perché appunto per noi è un po’ difficile da concepire, e preferiamo assaporare ancora un po’ l’essenza di questo paesino così tipico e così assurdo
Come in molti altri paesini del Guatemala, l’artigianato è un punto molto forte, sia a livello culturale, che a livello economico
Alle 12 ci aspetta il nostro micro bus privato per rientrare a Nebaj
Il viaggio è lungo e tormentato
Arriviamo per le 17, lasciamo al volo gli zaini e ci incamminiamo al cimitero, che a partire dalla mattina è stato adornato con fiori e candele
È bello tornare a casa
E vedere il cimitero così è un grande privilegio
Si respira sacralità
Si percepisce il senso di famiglia
Si sente il rispetto e l’incontro
È strano da spiegare
Noi occidentali concepiamo la morte come la fine della vita, a cui segue solo dolore
Dolore della perdita
Qua, quello che ho percepito io nel giorno dei morti, è stata la bellezza di poter ricordare insieme e di potersi riunire ancora
È stato davvero magico
Oltre alle candele e ai fiori, le famiglie offrono cibo e bevande ai loro cari defunti
Ci sono i fuochi d’artificio
I bambini giocano con gli aquiloni, e attraverso questi mandano messaggi ai morti
È una carezza al tempo che scade
In 4 giorni, abbiamo vissuto così tanto, visto così tante cose diverse e in contrasto, abbiamo visto così tanta vita autentica, condiviso la nostra straordinaria quotidianità
Insomma, grazie Guatemala, per queste piccole e allo stesso tempo infinitamente grandi sorprese.
Un racconto di Carlotta Moretti in Servizio Civile in Guatemala