di Marco Bello (in Burundi dal 1998 al 2000)
In Burundi alcuni di noi hanno vissuto il periodo complicato della guerra civile. Era difficile lavorare, in particolare nello sviluppo, occorreva stare molto attenti a dove si andava e a cosa si faceva, perché si rischiava per la propria incolumità. L’adrenalina era sempre a manetta. Anni intensi, sicuramente formativi per il carattere, a lungo andare un po’ più deleteri per il fegato e l’intestino. L’allerta per la sicurezza personale seguiva un moto ondulatorio e in certi periodi storici della nostra permanenza schizzava a mille. E’ il caso che vi riporto di seguito, quando furono uccisi due religiosi italiani a pochi giorni di distanza. Due conoscenti, amici, con i quali si condivideva una certa idea di ‘missione’. Il ricordo di entrambi in me è rimasto indelebile. Eccovi un articolo che scrissi dopo quegli avvenimenti che, indubbiamente, ci segnarono. Se avete qualche minuto.
Missionari nel mirino
Nella pentola a pressione dei Grandi Laghi africani il Burundi continua a mietere le sue vittime. Anche tra i missionari italiani. In quattro mesi due sono uccisi e un terzo gravemente ferito. Chi resta si domanda perché e chiede giustizia.
Quel mattino stavo andando a Murayi a 25 chilometri da Gitega, la seconda città del Burundi. Un amico mi chiama sul telefono portatile: «Pare ci sia stato un attacco vicino a Kibimba, ne sai niente?». Ero a 3 km dal posto. Cerco di informarmi e mi accosto alla posizione militare di un campo di deplacé (sfollati, a maggioranza tutsi, che vivono in villaggi artificiali lungo le strade principali). Il soldato conferma: «Sì, è successo qualcosa, ma non c’è problema, non ci sono scontri in corso nella zona. Continuate pure. Nessun rischio». Sta per proseguire a piedi quando, tornato indietro, in modo un po’ beffardo mi guarda e rivela: «E’ stato ucciso un bianco, ma la situazione è sotto controllo». In Burundi muoiono ogni giorno decine di persone a causa della guerra. Civili uccisi dalla guerriglia; contadini che cadono nelle rappresaglie dell’esercito regolare, altri sono presi tra i due fuochi. Ma quando la vittima è uno straniero, il significato è molto più forte. E’ un messaggio che qualcuno vuole mandare.
Era il 3 ottobre del 2000, quando Antonio Bargiggia, volontario laico consacrato è stato ucciso. Una falsa barriera sulla strada che percorreva ogni settimana per raggiungere la capitale. Qualche discussione con i quattro uomini che lo hanno fermato. Poi uno finge di andare verso la parte posteriore dell’auto, si gira e gli spara un colpo alla nuca. I suoi compagni di viaggio (tre burundesi) fuggono incolumi. Fratel Antonio (così era conosciuto in Burundi) era nel Paese da 20 anni. Apparteneva al gruppo di religiosi e laici “Fratelli dei poveri” di Milano, riconosciuto dal cardinal Martini. Da alcuni anni viveva a Buterere, uno dei quartieri più poveri della capitale. Zona di case di fango e lamiera che ogni sera alle sei viene “chiuso”: nessuno può entrare o uscire fino al mattino dopo. Abitava in una casa burundese, come i burundesi più umili. Caso unico per un muzungu (bianco) in questo Paese.
«Antonio era una persona che mi incantava per la sua umiltà e per il saper stare con i locali. Era l’unico a preoccuparsi anche dei soldati, diceva “poveri ragazzi, anche loro soffrono ma nessuno li considera”. Come apostolato, seguiva all’ospedale militare i feriti senza parenti, portando loro conforto». E’ la testimonianza di un volontario italiano, subito dopo l’accaduto. Eppure sono stati quattro giovani militari sui vent’anni gli esecutori. Fuggiti con la sua macchina (strano errore, forse certi dell’impunità garantita dal loro mandante) sono stati arrestati un’ora dopo. Il governo si è subito preoccupato di affermare che erano disertori. Dopo un processo sommario, uno di loro (quello che aveva premuto il grilletto), è stato fucilato davanti ai suoi compagni e alla gente di Gitega.
15 ottobre. Verso le sette del mattino la macchina delle suore Dorotee di Venezia lasciava il Gran Seminario di Songa, nei pressi di Gitega, per dirigersi alla parrocchia di Gihiza dove le suore abitano. Il giorno prima erano andate a dormire al seminario perché c’erano “strani movimenti” intorno alla missione. Stanno per arrivare quando vedono un gruppo di persone sulla strada. Partono alcune raffiche di mitra che investono suor Gina Simionato, unica italiana, al volante. La suora trevigiana è colpita al volto e muore sul colpo. Delle tre consorelle burundesi che la accompagnano una si fa un graffio. Si dirà che la macchina è caduta in un attentato dei ribelli che hanno sparato all’impazzata. Osservando la vettura risulta invece chiaro che i colpi erano tutti indirizzati al guidatore. Uno ha lasciato un buco molto grosso nella carrozzeria posteriore: non si trattava forse di un semplice kalashnikov.
Al contrario dell’attacco di Kibimba, qui non si scopre chi sia l’autore. L’accusa cade subito sui ribelli che da alcuni giorni girano nella zona. Ma l’attentato è avvenuto a circa 5 km da una posizione militare e le testimonianze lasciano molti dubbi sulla cronologia esatta dei fatti. «Non sembra lo schema utilizzato dalla ribellione», confida un giornalista della capitale. Possono essere stati i militari, ma anche le bande di estremisti tutsi, già famose a Gitega, pilotate da un potere nascosto ma presente ed efficace, che forse sta riacquistando consensi a causa della situazione politica.
Il Burundi è devastato da una guerra civile dal 21 ottobre del 1993, quando il primo presidente democratico, l’hutu Melchior Ndadaye, fu arrestato e ucciso da un gruppo di militari estremisti. Da allora l’esercito a maggioranza tutsi (oggi però impiega molti giovani hutu nella truppa per mancanza di forze) e diversi gruppi armati ribelli a dominante hutu, si scontrano. O meglio, saccheggiano e massacrano la popolazione civile dei due campi.
[…] Intanto, si cercano ancora delle risposte. «Ma perché questi attacchi a religiosi italiani?». Si chiede un missionario da anni nel paese. «Se contiamo anche la pallottola sparata a freddo in faccia a don Carlo Masseroni, vivo solo per miracolo, a luglio, siamo già a tre: tutti con modalità simili». Già, perché? Non è la prima volta (nel settembre 1995 due padri saveriani e una volontaria furono giustiziati a casa loro dai militari). Perché sono testimoni scomodi, perché lavorano a fianco della popolazione più abbandonata e sono tra i pochi a sapere, in questo paese dove la stampa è ancora imbavagliata, e a volte denunciano. Ma anche perché spesso sono gli obiettivi più facili e indifesi. Fratel Antonio era a conoscenza di molti problemi di Buterere, tra cui questioni di terra. Don Carlo (missionario fidei donum di Novara) aveva riconosciuto i militari che, per la seconda volta in pochi mesi, erano tornati a rubare alla missione. Chi ha ucciso fratel Antonio era stato visto il giorno prima nello stesso luogo, a informarsi sui movimenti dell’italiano. Allo stesso modo, alcuni sconosciuti chiedevano quando sarebbero tornate le suore, i giorni precedenti all’imboscata di Gihiza.
Ma secondo altri, per prima la comunità internazionale, «sono casi separati di banditismo, senza nessuna relazione l’uno con l’altro», a scopo di furto, è la tesi più accreditata, quando invece i religiosi non avevano soldi addosso. Addirittura si sente dire che «le vittime viaggiavano a orari non conformi alle norme di sicurezza, nei quali il governo burundese non può garantire la protezione degli stranieri». Questi sono i ragionamenti di chi vuole archiviare il caso e non creare problemi ai propri partner governativi. I media locali non danno spazio a questi gravi fatti e gli operatori umanitari di Nazioni Unite e organismi internazionali non ricevono (tranne quelli italiani) particolari consegne di sicurezza.
Tra i religiosi e volontari italiani si accusa il duro colpo. Molta tristezza, condivisione, ma anche un po’ di remissione. «E’ la vita dei missionari» confida un’anziana suora. «Va bene i martiri, ma vogliamo pure giustizia» replica un missionario laico.
(pubblicato su “Missioni Consolata”, marzo 2001)