Alle quattro e mezzo di mattina tutto il mondo si ferma in silenzio: non s’odon più i rumori della notte ed è ancora troppo presto per quelli del giorno. I fiori e le piante, carichi di rugiada e umidità, smettono di emanare i loro dolci profumi e si preparano ad accogliere insetti e uccelli per offrir loro una lauta colazione.
Anche l’acqua della Laguna La Cocha sembra ferma, come immobile è la nebbiolina a pelo d’acqua che giusto un attimo prima si stava alzando. Nulla si muove. Ma nel pueblo di El Encano, in una casa di tapia e legno, s’accende, improvviso come una stella, il lume di una lampadina ad incandescenza.
Chi mai si permette di interrompere quest’incanto di immobilità? Gli abitanti della Laguna lo conoscono bene, perché tra mezz’ora, alle cinque in punto, sintonizzeranno le radio sulla frequenza 91.4 ed riceveranno il buongiorno dalla voce calda e impostata di Alfonso. A lui è permesso di interrompere il silenzio, perché la sua voce, come il rintocco della campana della chiesa, scandisce l’inizio della giornata. Dalle cinque fino alle sette e trenta, Alfonso alternerà vallenato, salsa e musica andina alla data sulla scadenza del pagamento delle tasse, o farà gli auguri di buon compleanno a qualche giovane. E naturalmente non si stancherà né smetterà di diffondere messaggi sulle buone pratiche ambientali, sulla difesa dell’ambiente, sul rispetto della natura, sulla necessità di cambiare la mentalità immediatista e di pensare, come diceva il Capo Navajo, che:
“Non abbiamo ereditato la terra dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli”
E non crediate che sia facile: la zona della Laguna La Cocha era, fino a trent’anni fa, un’area di produzione intensiva di cipolla, patata e carbone vegetale: cipolla e patata si producevano perché il mercato li richiedeva, ma non garantivano né benessere né sicurezza alimentare. Don Marino, con una finca di circa 20 ettari, coltivava cipolle. Ogni mese andava a Pasto, con la famiglia, con i bambini, e con rammarico pensava prima a comprare diserbanti e concimi chimici per le sue cipolle piuttosto che il cibo per la famiglia.
E lì, ha compreso che forse qualcosa non andava. Che doveva cambiare. Cambiare perché doveva assicurare ai figli, alla famiglia, una vita decente, e decise che non avrebbe più venduto la sua dignità per una bottiglia di diserbante. E ritagliò nella sua finca uno spazio, che, benché piccolo, era sufficiente per coltivare quel poco di orto che avrebbe dato da mangiare a lui e alla famiglia, fino a poter rifornire di ortaggi, di porcellini d’india, latte e fertilizzante, tutto completamente organico, persino i vicini.
Oppure Doña Conchita Matabanchoy. Il marito lavorava sulla montagna, producendo carbone vegetale dal tronco dell’eucalipto, rimanendo fuori da casa per otto mesi all’anno, e tornando di quando in quando per vendere carbone e comprare birra. E Doña Conchita smise di aspettarlo, ed intraprese una strada, iniziando a seminare un orto, curando un giardino con fiori di rara bellezza, piantando piccoli alberi che oggi reggono le altalene dei suoi gioviali nipoti. E la lunga strada l’ha portata in Africa a parlare della sua esperienza, e in Giappone, dove ha ricevuto, quale presidentessa della Minga Asoyarcocha, il premio per le migliori Riserve Naturali della società civile. E tutto iniziò nella casa di Don Ignacio, nel 1979 che sui libri di storia segnala la vittoria di Khomeini e l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Un lontano 1979 che riunì intorno ad un piatto di zuppa di cipolle e patate sette semplici persone. Tante altre persone, da allora, non si sono arrese ad una logica economicista, ma si sforzano di integrarsi al ciclo della natura, considerandosi niente più che un anello di una lunga catena che non ha vertici né basi. E così, piano piano, da trent’anni a questa parte, la Minga Associativa Asoyarcocha e Aosciaciòn de Desarrollo Campesino, uniscono gli sforzi di centinaia di fincas e case bio sostenibili: gli odori dei fiori, la bellezza degli orti, la quantità di alberi, animali selvatici, come anitre o aquile, lo svolazzare di mille farfalle, api per il miele, la morbidezza dei prati, il lieve rumore del vento che accarezza le canne sulla Laguna, la delicatezza della pioggia sulla pelle.
In mezzo a tanta meraviglia, la voce calorosa di Don Alfonso, dalla radio della Minga Associativa Asoyarcocha, risuona come in un Tempio, invitando i fedeli a godersi ogni minuto lo spettacolo di cui sono testimoni: li invita a prendere coscienza della bellezza, a non velarsi lo sguardo e la coscienza di fronte agli scempi di una caccia selvaggia, di una produzione che avvelena acqua e terra, anime e stomaci.
E l’invito è chiaro ed esplicito: smettiamo di pensare di essere la punta di una piramide, e torniamo ad essere il semplice anello di una catena che si chiama vita.
Enrico Zanieri