di Paola Ruga (in Burundi nel 2000-2001)
La vita dei volontari è strana. Io ho vissuto in capitale a Bujumbura, probabilmente la mia percezione è diversa di chi ha vissuto in brousse. Ma le sensazioni vissute sono molto diverse rispetto a quanto si possa raccontare: raccontando mi è capitato di sentirmi dire che sono cose da pazzi, che vivere così è una follia, ma quando ci sei dentro e sei immerso nella realtà, tutto ti sembra quasi normale. Semplicemente sai che per non correre rischi devi seguire certe regole e che la vita va avanti anche se c’è la guerra e se la sera si sentono gli echi, più o meno lontani, di bombe e fucili.
In capitale, quando sono arrivata a giugno 2000, c’era il coprifuoco a mezzanotte, nel corso dell’anno ci sono state delle variazioni arrivando anche alle 8 di sera nel mese di marzo 2001, quando c’è stato un attacco in un quartiere nord di Bujumbura, e quando sono partita il coprifuoco si era stabilizzato sulle 11 di sera. L’altra regola era che dopo le 16 e fino alle 8 del mattino le strade per entrare e uscire dalle città restavano chiuse, era pericoloso andare in giro in prossimità del buio, quando più facilmente potevano esserci attacchi coperti dall’oscurità.
Il consolato aveva stilato delle regole di sicurezza, come comunicare gli spostamenti all’interno del paese e tenere a casa scorte di acqua, cibo… in caso di isolamento! Le Nazioni Unite organizzavano settimanalmente riunioni di concertazione e di sicurezza, in cui ci si aggiornava sui vari attacchi della settimana e si davano e ricevevano informazioni. Spesso il governo era reticente e dava notizie solo degli attacchi di cui qualcuno aveva avuto risonanza, la politica normale era negare e nascondere.
La situazione tra hutu e tutsi era strana, in un anno a Bujumbura non sono arrivata a capire chi fossero gli hutu e chi fossero i tutsi tra i collaboratori locali. Non sono cose che si potessero chiedere, i due sostantivi si utilizzavano il meno possibile… e in teoria c’era il divieto di discutere della situazione del paese con i locali, bisognava evitare di diventare di parte o dare adito a interpretazioni.
Con la gente del posto la comunicazione era difficile. Un po’ probabilmente il carattere chiuso… gente di montagna! Poi la guerra ha reso tutti più sospettosi, era difficile sapere cosa pensasse realmente la gente, sapere se ciò che veniva detto era il loro pensiero reale o ciò che noi ci aspettavamo di sentire. Questo rendeva difficili anche le amicizie e alla fine ci si ritrovava tra espatriati per cercare il tipo di amicizia a cui eravamo abituati e per poter scambiare esperienze e pensare ad altro.
A fine febbraio 2001 c’è stato l’attacco ai quartieri nord della capitale, per parecchi giorni ci sono stati scontri e alla sera la musica di mortai e armi da fuoco non mancava. E’ significativo il fatto che ascoltando una cassetta inviatami dall’Italia dove c’era la canzone di Vecchioni che inizia con uno sparo di fucile e poi attacca con “e spararono al cantautore”, io abbia fatto un salto pensando che qualcuno avesse sparato in cortile, pur conoscendo la canzone.
Proprio durante la mia ultima settimana in Burundi, mentre con Alphonsine tornavamo in auto dall’ufficio delle imposte, a pochi metri dal cancello dell’ufficio sentiamo degli spari molto vicini: ci abbassiamo e stiamo ferme un momento poi, mentre tutti intorno scappano, usciamo dall’auto sempre acquattate. Girando dietro l’auto per andarci a riparare dentro un cancello, vediamo uscire correndo da un negozio un militare armato e un ragazzo. A quel punto ci siamo nascoste in un portone con altre persone aspettando che si calmassero le acque. Siamo uscite all’arrivo di altri soldati, che sono entrati nel negozio a prelevare un secondo militare. Morale della favola: due militari erano entrati nel negozio per derubare il proprietario, ma stranamente il proprietario era riuscito a bloccare uno dei due aggressori, mentre il secondo era fuggito.
Io ho sempre ritenuto di non essermi fatta toccare troppo dalla situazione, di essere riuscita a gestire bene “la guerra”. Non ho vissuto nella paura, ma come quasi tutti mi sono ricavata i miei spazi e la mia vita. Uno degli ultimi mesi però una notte ho fatto un sogno terribile in cui ero in Italia con mia sorella, e c’erano tanti militari africani che passavano armati fino ai denti, poi si mettevano a litigare tra loro e io cercavo di andare via con mia sorella, ma come succede nei sogni, quando sono iniziati gli spari, non riuscivo a muovermi e a comunicare… eravamo sdraiate per terra e non capivo se fosse stata colpita… mi sono svegliata di soprassalto! Quando l’ho scritto a mia sorella, mi ha detto di essere contenta: aveva paura che stessi diventando una cinica, visto che nei momenti più difficili, come la sera del tentativo di colpo di Stato, avevo scritto ai miei che ero seccata perché a casa di Franco non c’erano patate e noi volevamo preparare gli gnocchi per cena! In Italia erano strabiliati che in un momento simile pensassimo al cibo.
Alla fine del mio contratto nel giugno 2001, Alphonsine, la ragazza burundese con cui ho lavorato tutto l’anno, è venuta 2 settimane con me in Italia. E’ stato interessante osservare e vivere la sua scoperta del mondo, un mondo dove “c’è il sole di notte”! Infatti in Burundi per tutto l’anno il sole tramonta intorno alle 6.30, poco più poco meno, per cui arrivare in Italia a giugno con le giornate chiare fino alle 22 l’ha lasciata a dir poco esterrefatta. Il fatto di circolare fuori città di sera, in mezzo ai boschi (è venuta un paio di volte a dormire in campagna con me sulla collina torinese) all’inizio l’ha preoccupata non poco a causa dell’eventualità di trovarsi di fronte gli “assaillants” o i “bandits”… Nel suo breve soggiorno torinese abbiamo parlato più di quanto non abbiamo fatto in un anno di Burundi, parlato nel senso di toccare argomenti delicati come le etnie, la guerra, la famiglia… Ho saputo finalmente qual era la sua etnia e quella degli altri componenti dell’ufficio, per alcuni è abbastanza lampante, per altri meno, visto che le due etnie sono parecchio mescolate, ma è l’etnia del padre quella che ti rimane “appiccicata”.
Due parole le voglio ancora spendere sulla comunità CISV in Burundi, che all’epoca era qualcosa di un po’ vagante… dipendeva molto dalle persone, dalla situazione di sicurezza. La cosa certa è che essere un gruppo, un’équipe, se non una comunità, aiuta molto sia nel lavoro che nel vivere in un paese così particolare!