di Alessandra Casu
Sono partita in missione in Burundi a fine dicembre 2013 per valutare l’avanzamento di un progetto CISV in corso, finanziato dall’Unione Europea. Il progetto, iniziato più di 2 anni fa, ha come obiettivo il rinforzo tecnico e istituzionale delle organizzazioni contadine nelle quattro province di Bujumbura Rural, Muramwya, Gitega e Karusi.
L’aeroporto, sempre lo stesso, accogliente ed esteticamente molto particolare, con le sue cupole a soffitti altissimi, ha ridestato in me una profonda emozione. A bordo dell’aereo non c’erano molti passeggeri e abbiamo viaggiato comodamente, ma una cosa mi ha stupito: la differenza tra i viaggiatori africani del Sahel e quelli della zona dei laghi. Solitamente le mie destinazioni sono le terre saheliane, e i viaggiatori che incontro sono spesso persone semplici, vestite con i loro boubou di cotone, inverno ed estate, generalmente poco abituate ad allontanarsi troppo dalla loro terra, spaventate ma pur sempre fiere del loro viaggio verso l’Europa o del rientro a casa. In questo viaggio burundese, al contrario, ero in compagnia di persone agiate, vestite come gli occidentali, con abiti di grandi firme, vistosi gioielli, e con modi molto snob tipici di un livello sociale elevato.
Sono stata in Burundi circa 10 giorni e ho potuto incontrare i beneficiari del progetto, i contadini, uomini e donne. Ho visto i magazzini che hanno costruito allo scopo di stoccare le patate per la semina e per la vendita diretta, e altri prodotti agricoli interessanti per la vendita sul mercato locale.
I contadini mi sono sembrati entusiasti e dinamici. A vederli sembravano gli stessi di 20 anni fa, con i loro vestiti logori, le facce magre, le scarpe consumate; ma ho colto in loro un importante cambiamento: li sento più attivi, critici su quanto fatto e sul da farsi, meno dipendenti rispetto al ruolo del finanziatore o del partner europeo, e soprattutto più propositivi.
Le donne, belle e coloratissime come sempre, ora sono presidenti, segretarie, tesoriere di gruppi di contadini, e sono ascoltate e benvenute dagli uomini. Spesso sono donne di una certa età, madri e forse nonne, ma sono rispettate, ed è un risultato importantissimo, che segna un grande cambiamento, in questo paese.
Il Burundi è ancora in lutto per il “genocidio” (metto tra parentesi perché sembra non si possa usare questa parola) che ha coinvolto tutti, ognuno ha perso una persona cara, ma mi sembra che i suoi abitanti abbiano trovato la forza di rialzare la testa e andare avanti, di dare un futuro ai propri figli e di mettere dentro una scatola chiusa, in fondo allo stomaco, l’odio accumulato durante la guerra.
La scatola probabilmente si riaprirà, un giorno, come succede ormai ciclicamente. Nel 2015 ci saranno le elezioni e i momenti di tensione sono già iniziati. In giro per le strade ho incontrato e parlato con tante persone e mi hanno fatto capire che la gente è stanca, vuole la pace, desidera vivere in tranquillità e dare un contributo per lo sviluppo del proprio paese.
Sanno che senza pace non ci sarà mai la sicurezza alimentare, che i loro bambini non potranno avere una scuola, che mancherà la sanità, che anche avere una casa e una terra fertile su cui coltivare sarà impossibile.
Il nostro progetto ha dato dei buoni risultati, ma non bastano. Continuiamo a lavorare per avere ulteriori finanziamenti e per costruire un altro spicchio di futuro insieme ai nostri amici contadini del Burundi.