di Federico Mazzarella (*)
Da mesi, forse per la prima volta, il mondo sembra essersi accorto della Guinea. Non per il calore della sua gente, i paesaggi sconfinati o il fine artigianato, ma per l’ebola. Una parola che non ha bisogno di spiegazioni e per la quale parla la sua sinistra fama.
E’ dal dicembre 2013 che il virus si diffonde in Africa Occidentale, minacciando le attività e la vita della popolazione. Sotto accusa la carne di pipistrello, prelibatezza culinaria locale e probabile incubatrice del virus. Malattia letale, all’esordio l’ebola è indistinguibile dalla ben più diffusa malaria. Ma la condizione del malato precipita, e in breve febbre e spossatezza lasciano il posto ad atroci dolori ed estese emorragie. I morti hanno superato i 2.500 e i contagi accertati sono oltre il doppio, 750 solo in Guinea.
L’ebola non è facile da contrarre: non trasmettendosi per via aerea, il frequente lavaggio delle mani e il mancato contatto con i malati bastano a evitarla. Perché allora una propagazione così incontrollata di un virus tanto debole da non sopravvivere al contatto con la luce e il sapone? Proprio la facilità con cui l’ebola può essere vinta rivela la mancanza di una tempestiva sensibilizzazione. Il contesto non è d’aiuto e chi conosce l’Africa sa perché una simile infezione è difficile da contenere. Ma ci sono anche precise responsabilità.
Usanze funebri e malgoverno
Nella regione fra Guinea, Liberia e Sierra Leone gli spostamenti sono quotidiani e irrinunciabili per mantenere la famiglia. La zona vive di mercati, colorati e caotici come solo in Africa possono essere: per vendere i prodotti i commercianti percorrono km al giorno e passano “frontiere”, che qui sono linee poco significative che dividono famiglie e comunità.
La malattia è andata ad affliggere uno dei Paesi più poveri al mondo. Dove 7 madri su mille non sopravvivono al parto, 65 bambini su mille non raggiungono i 5 anni e la prima causa di morte sono le infezioni, un’emergenza di tale rilievo non si può materialmente affrontare. Cronica la mancanza di farmaci, posti letto, personale formato.
Ciò che però ha trasformato una malattia difficile da contrarre in un’emergenza internazionale sono le usanze funebri. Per un occidentale la cerimonia è affascinate e a un tempo incomprensibile: centinaia di presenti, riuniti in casa del defunto, passano a turno davanti al feretro per toccarlo. Altra usanza diffusa è il lavaggio del morto prima della sepoltura. La tradizione esige poi che il corpo torni al villaggio natio, percorrendo chilometri e impiegando ore. Sfortunatamente, si tratta proprio di ciò che in caso di febbre emorragica va evitato, essendo il contatto con il cadavere la principale causa di trasmissione. Il corpo va anzi bruciato rapidamente, usanza qui sconosciuta.
Ma ci sono state anche vere inadempienze. L’azione del governo è stata lenta. Misure straordinarie per contenere gli spostamenti o sottrarre i corpi alle famiglie sono invise a ogni governo, specie se instabile. In una regione sede di conflitti latenti, dove un incidente stradale può provocare giorni di disordini, per di più nei feudi elettorali del presidente alla vigilia delle elezioni, le misure impopolari sono sconvenienti.
Simile è stata l’inerzia internazionale, spiegabile con una scarsa attenzione umanitaria per alcuni Paesi accompagnata da un eccesso d’attenzione per altri meno bisognosi. La Guinea è un Paese a terra, ma da sempre ‘non di moda’: l’aiuto internazionale ricevuto è insufficiente, le ong sono poche e le organizzazioni internazionali svolgono attività limitate.
Soprattutto la stampa internazionale ha colpe imperdonabili. Un diabolico gusto per una malattia gravissima si è espresso in modo evidente: una cultura della paura amata dai nostri media, che sollecita sensazionalismi disinformati e pericolosi. L’ossessione con cui si ripete che l’ebola non lascia scampo, che non c’è cura né vaccino, che il malato sarà isolato e poi bruciato senza cerimonia, che l’ebola si diffonderà, ha avuto conseguenze catastrofiche sull’immaginario collettivo, soprattutto nei luoghi del contagio. L’aspetto più vistoso è stato il disinteresse per il destino delle popolazioni locali e una sproporzionata attenzione al rischio che il contagio si propagasse ‘’da noi’’: una paura astratta, che ha provocato eccessi di precauzioni e aggravato il problema. Impressionante è stata la decisione di chiudere le rotte per l’Africa Occidentale da parte di molte compagnie aeree. Scelte inutili – visto che i malati di ebola non viaggiano perché fisicamente impossibilitati – e impulsive, che aumentano la paura, impediscono gli spostamenti di personale sanitario e farmaci, e aggravano situazioni già allo stremo. L’aggiunta poi dell’ebola nel tritacarne della lotta ai clandestini non si spiega con la semplice ignoranza, occorre forse pensare a un ragionato cinismo.
Ciò che ha ucciso di più è stato l’approccio iniziale seguito sul terreno, quello della mancanza di sensibilizzazione presso la comunità. Non si è parlato con la gente, preferendo la via energica e trascurando di spiegare quali erano le pratiche a rischio. Se fin dall’inizio si fosse comunicato con le persone, non saremmo a un’emergenza dallo sviluppo imprevedibile.
In Africa un uomo solo è già come morto
È stato interessante osservare con quanta rapidità sono cambiate le persone nel corso di pochi mesi.
All’inizio l’argomento ebola e chi ne parlava erano oggetto di scherno. Frasi di primordiale semplicità rivelavano una letale carenza d’informazione: ‘’non ho mai visto l’ebola, quindi non esiste’’, la sentenza più diffusa.
Al moltiplicarsi dei casi, la rabbia ha preso il sopravvento: ‘’c’è sempre qualcosa contro di noi, ora si sono inventati l’ebola!’’. Il vittimismo complottista è stato una costante fin dall’inizio: soprattutto americani e case farmaceutiche sembravano oggetto d’accusa, mentre si vociferava di commercio d’organi nei centri sanitari a opera degli stranieri. Il numero dei morti che cresceva confermava le dicerie. La rabbia contro la malattia ‘’inventata’’ ha provocato ripetuti attacchi ai centri sanitari e la chiusura dei villaggi ai medici: la mancanza di un legame con la comunità si è fatta sentire nel modo più violento.
Quando non è più stato possibile negare, è prevalsa la paura. Paura di stranieri vestiti da astronauti che reclamavano i defunti o sottraevano i malati. Con essa è giunta la psicosi, associata alla disinformazione sulle modalità di trasmissione e alle radicate credenze di unzioni e stregonerie. E soprattutto lo stigma: contro i malati, i loro familiari, i medici, e contro i sopravvissuti alla malattia che rischiano la vita al ritorno al villaggio. Non è facile per un occidentale capire quanto sia doloroso per un africano essere isolato: in Africa non esiste l’individuo, ciascuno si identifica in base alle appartenenze, d’etnia, famiglia, religione, clan, villaggio. Un africano è sempre parte di qualcosa che va oltre la sua individualità: un uomo solo è come già morto, e l’abbandono è un incubo per chiunque.
Le tardive misure del governo hanno fatto il resto. Dall’inazione all’eccesso: divieti, quarantene, blocchi, perquisizioni, coprifuochi, carcere per chi nasconde il malato, tutto nella mancanza di sensibilizzazione. L’effetto è stato criminalizzare il malato, aumentando lo stigma e scoraggiando la richiesta d’aiuto. La prima causa di diffusione oggi è l’occultamento dei malati: se l’ebola è una condanna, perché portare un familiare a morire da solo dove lavorano stranieri dei quali neanche si vede il volto? Se deve morire, che muoia con la sua famiglia. Ciò è umano, ma così si azzerano le possibilità di sopravvivenza; ogni infetto appartiene alla famiglia di un malato che ha curato senza protezioni.
Ciò che potrebbe rendere paradossale l’ebola è che all’emergenza sanitaria si aggiunga presto quella alimentare. La chiusura delle frontiere ha paralizzato bacini commerciali che dei confini non tenevano conto. La diffusione è poi coincisa con la semina, avvenuta a rilento nei luoghi del contagio per assenteismi frutto di psicosi: ciò prolungherà gli effetti dell’emergenza, rendendo scarso il raccolto e alti i prezzi delle derrate. Anche le compagnie minerarie, pilastro dell’economia, hanno rallentato le attività per paura che le linee aeree fossero chiuse, rendendo impossibile l’eventuale evacuazione.
La soluzione deve essere “sociale”
Come uscire da una situazione in cui paura e diffidenza uccidono più della malattia?
Ricominciando da capo: Stabilire un legame con le persone e dare loro la fiducia che non hanno mai tradito quando si è avuto il coraggio di dagliela. Togliersi gli scafandri e parlare con la gente, trasmettere messaggi nuovi: di ebola si muore, ma si può guarire andando all’ospedale. Il malato va isolato, ma le visite sono possibili secondo certe norme. Il morto va bruciato, ma ciò non impedisce una cerimonia secondo certe precauzioni.
Senza una comunità collaborativa nessuna lotta all’ebola o a qualunque problema di povertà sarà vinta.
E poi una mobilitazione efficace: l’inadeguatezza dell’azione internazionale perdura, e persino oggi c’è chi si reca all’ospedale e non trova un letto o le poche medicine idonee. Non è raro che tutto sia lasciato ai volontari e che il personale locale non disponga di protezioni e formazione necessaria.
Infine, per il futuro, conciliare l’inconciliabile. Come può un medico armato di scienze esatte dialogare con una maga o un guaritore tradizionale? Come possono mondi così lontani incontrarsi? Sappiamo che possono, con sensibilizzazione, conoscenza reciproca, sincera volontà di convivere. Il primo passo sta a noi, dare fiducia, mostrare un autentico rispetto. Fargli capire che condividiamo lo stesso scopo e che la loro medicina può arrivare dove la nostra non può. E un giorno accadrà che i malati arriveranno all’ospedale perché il guaritore al villaggio glielo ha consigliato. È già successo, in Guinea e altrove.
(*) Cooperante CISV in Guinea