PACE IN COLOMBIA…O NO?

di Federico Perotti, presidente CISV

 

Dal 2004 al 2012 sono stato in Colombia 4 volte, per il monitoraggio e la programmazione dei progetti CISV. La Colombia è un Paese bellissimo, di paesaggi aspri e spesso selvaggi, con un popolo aperto e allegro nonostante tutto. Non ho visto molto dal punto di vista turistico, vorrei tornarci per fare un giro nel Caribe, o sulle alte montagne, o in Amazzonia. Chissà se un giorno diverrà di nuovo possibile senza rischi o posti di blocco

Tutte le volte che l’ho visitato, la sensazione era sempre quella di un Paese strano, le città che vivevano come se niente fosse; ma voci, notizie, impressioni di tante zone del Paese non sicure, con attacchi dei guerriglieri, dei paramilitari, o repressioni dell’esercito. Ricordo distintamente un giorno a Toribio (nel Norte del Cauca), dove ancora adesso CISV lavora insieme a Movimento Sviluppo e Pace, e agli amici di CECIDIC e del popolo indigeno Nasa, mentre spiegavo il budget e il quadro logico di un progetto, un fortissimo colpo di mortaio che scuote l’edificio… e il missionario Padre Antonio che mi dice “benvenuto in Colombia”. La quotidianità della guerra civile, gli scambi di fucilate, i sequestri all’ordine del giorno, e in mezzo un popolo che provava a vivere o sopravvivere. Un Paese con un numero di sfollati interni arrivati fino a 4 milioni, il 10% della popolazione.

Ero casualmente in Colombia anche il 2 luglio 2008, quando venne liberata dopo sei anni e mezzo di prigionia Ingrid Betancourt, candidata alla presidenza della Repubblica, rapita nel 2002 dalle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), il più importante gruppo guerrigliero del Paese. Ricordo l’emozione di vivere quei momenti “in diretta”, ma ricordo anche lo scetticismo dei colombiani per un conflitto che comunque continuava. Il conflitto interno ha roso dentro il Paese, si è intrecciato con la politica, con i narcotrafficanti, con il potere sulle ricchezze del territorio, la coca, le risorse minerarie, gli interessi. Apparentemente un Paese senza sbocco. Un Paese grande, che per alcuni anni ha avuto il record mondiale del numero di omicidi in rapporto alla popolazione. Pablo Escobar e i cartelli di Medellin e di altre città, le guerriglie delle FARC, dell’ELN, e ancora prima dell’M19, e poi sempre i paramilitari; e i ragazzini reclutati giovanissimi che sparivano nella selva e che erano pagati per uccidere, altri ragazzini uguali chiamati a combattere con l’esercito; la violenza come un filo conduttore della vita di tutto un Paese, di tutto un popolo.

In coincidenza dell’ultima mia missione, nell’autunno 2012, erano cominciati i negoziati per gli accordi di pace tra il governo e la storica guerriglia delle FARC. E il 26 settembre 2016, dopo 4 anni di trattative condotte a L’Avana con il sostegno del governo cubano e di quello norvegese e l’appoggio esterno di Cile e Venezuela, i negoziati si sono conclusi con la firma di un documento di 297 pagine. Nell’accordo sono stati inclusi importantissimi dossier come la terra e lo sviluppo rurale, la giustizia verso gli autori di crimini durante il conflitto, delle forme di amnistia, la riparazione verso le vittime, la partecipazione alla vita politica degli ex guerriglieri. Questi accordi chiudevano finalmente un conflitto di 52 anni, cominciato nell’autunno del 1964, quando nacque questo gruppo guerrigliero che proponeva la lotta armata per i diritti del popolo colombiano di fronte alle ingiustizie crescenti. Un conflitto che ha fatto più di 260.000 morti tra esercito, guerriglieri e soprattutto civili.

Ma il referendum del 2 ottobre voluto dal presidente Santos per approvare gli accordi ha avuto esito contrario: pochi votanti e tra questi un’esigua maggioranza per i NO. I colombiani hanno paura della pace, o pensano che non sia giusto perdonare o superare la violenza, o ancora sono influenzati da poteri più o meno evidenti che hanno interesse a non concludere il conflitto e non vogliono raccogliere la sfida di una nuova era. Il presidente Santos e i vertici delle FARC hanno subito riconfermato la volontà di pace, ma la strada ora è in salita perché una revisione degli accordi è necessaria, venendo incontro alla visione della destra dell’ex presidente Uribe, che ha sempre sostenuto la guerra totale alle FARC e ora farà valere la sua vittoria al referendum.

La sfida è davanti al Paese: ci sono negli accordi bocciati dal referendum molti programmi e buone volontà a cui devono seguire fatti concreti che portino il Paese a superare la violenza, le divisioni e soprattutto le ingiustizie, le disuguaglianze economiche, la condizione difficile del mondo contadino. Ci sono altri gruppi guerriglieri minori che dovrebbero seguire la strada intrapresa dalle FARC. E c’è un governo che deve dimostrare di saper gestire questa fase, non privilegiando solo gli interessi economici di poche persone nella crescita del Paese, ma coinvolgendo veramente la popolazione rurale nella costruzione del futuro, favorendo inclusione economica, politica e sociale.

Ma ora è di nuovo tutto in sospeso… il conflitto infinito potrebbe non finire ancora e le colombe bianche fatte volare il 26 settembre possono attendere… la pace che si spera un giorno verrà.