di Laura Gagliardi – CISV Benin
Lo scorso 10 gennaio il Benin ha celebrato la 25ª edizione della Festa nazionale del Vudù, simbolo del Paese in cui trovano un’identità comune le numerose etnie che vi abitano. Ma non solo: tale culto tipico dell’Africa Occidentale – che annovera più di 200 divinità nel suo pantheon e 60 milioni di fedeli in tutto il mondo – ha conosciuto una larga diffusione in America Latina e nei Caraibi, in particolare ad Haiti, attraverso la tratta degli schiavi che ebbe il suo punto di partenza proprio nelle coste africane occidentali.
Ed è in uno dei poli più caldi della tratta in Benin, a Ouidah, che questo culto trova la sua più famosa celebrazione: la festa nazionale del Vudù, commemorata in ogni angolo del Paese dal 1991. È in quell’anno infatti che lo Chef Spirituale Supremo Daagbo I – una sorta di Papa del Vudù – decide di aprire il culto al mondo intero, alla ricerca di un incontro pacifico con le religioni e i popoli di tutta la Terra, con una grande cerimonia presso la Porta del Non Ritorno (da dove venivano imbarcati gli schiavi) sulla spiaggia di Ouidah: una festa che, presa in carico dallo Stato dal ‘99, è stata spesso occasione per manifestazioni spettacolari tuttora vivide nella memoria degli abitanti di Ouidah: come quando al festival del ‘92 Daagbo I si aprì un varco nel mare alle porte della città per allontanarvisi con un montone da offrire in sacrificio a Mamiumatà, dea delle Acque, tornando poi indietro con cibo in abbondanza, donato dalla divinità.
Un pantheon in corteo
Desiderosa di vivere anch’io momenti unici come quelli raccontati dagli ouidanesi, il 10 mattina parto presto da Cotonou alla volta della Città dei Pitoni (= Ouidah). La prima tappa è l’Ufficio del Turismo, nel centro storico di Ouidah, per incontrare le guide che mi accompagneranno nel corso di questa giornata “fenomenale”, assieme a molti altri turisti accorsi per partecipare al festival. Attraversiamo una città in fermento: ovunque si sente musica proveniente dai numerosi raduni organizzati ai vari angoli delle strade, mescolati alle voci e al colorato via vai del mercato locale settimanale, il marché Kpassé, che superiamo per unirci al corteo di adepti sulla Grande Route. Terminate le cerimonie riservate agli iniziati, comincia il pellegrinaggio verso i luoghi di culto principali della città, cui tutti possono prender parte. Una sfilata di uomini e donne vestiti di bianco – il colore delle grandi feste vudù – e ornati di collane e bracciali rituali, capeggiata dai sommi esponenti dei culti delle diverse divinità vudù, in primis il discendente dello scomparso Chef Supremo Daagbo I: distinguibile dagli altri per un vistoso alto cappello a cilindro tempestato di strass dalle tinte vivaci, Daagbo II avanza sorridente sotto un grande parasole giallo rotante decorato con le immagini di dei e di importanti figure religiose vudù; al suo fianco la fedele prêtresse, la sacerdotessa del suo ministero.
Ad aprire il cammino è il Deminé Palogà che frusta ritualmente l’aria con una coda di cavallo, simbolo di forza, per scacciare gli spiriti negativi dal corteo, il quale avanza al ritmo dI trombe e djembé: accompagnati dal suono dei tam-tam capi religiosi, adepti esultanti e turisti eccitati avanzano verso l’albero sacro alla divinità Avleketé, dio delle merci. Benché l’albero sia costretto in un’aiuola all’interno di una pompa di benzina, il rito cui assistiamo è capace di rievocarne tutta la forza mistica: a un segnale dei capi la musica si interrompe per lasciare spazio alle parole dello Chef Daagbo, che offre i suoi omaggi versando ripetutamente acqua sul terreno sacro dell’Albero. A un suo cenno, la folla stretta intorno a lui si unisce con le mani, in una catena che coinvolge anche noi spettatori, per trasmettere tutta la nostra forza al rito in corso.
Il cammino prosegue verso le altre divinità. A ogni tappa, il rituale si ripete: la banda tace improvvisamente, adepti e curiosi seguono le parole e i gesti dello Chef Daagbo per propiziarsi la divinità, quindi si continua. Nel corso del pellegrinaggio portiamo omaggio al Legba Agadja (installato a Ouidah dall’omonimo re di Abomey nel 1723 circa) e al Hweda To Legba, protettore di tutta la popolazione; passaggio obbligato è il Tempio dei Pitoni, divinità principe di Ouidah, dov’è possibile incontrare i sacri serpenti viventi, seguito dal tempio di Mahu Lissa, la coppia divina donna-camaleonte tra le più importanti in Benin.
La magia degli Zangbeton
Lungo il tragitto il corteo si allarga: arrivati al marché Zobé, appaiono (spuntati da dove? magia!) due Zangbeton, le divinità protettrici della notte, una sorta di “pagliai” viventi che si aggiungono al gruppo; la folla aumenta, si uniscono anche i venditori ambulanti di gelati, bibite, frutta fresca e secca attirati dalla festa, oltre che dalla promessa di numerosi clienti per la giornata. Dopo più di due ore di marcia, sotto il sole della stagione secca, impolverati da un impietoso harmattan ma rinvigoriti dal potente ritmare dei tamburi, arriviamo alla Cité Royale Daagbo Hounon Houna, sede dello Chef Daagbo, nella Foresta Sacra di Agondji-Daho: è qui che avranno luogo le cerimonie religiose cui partecipano i diversi conventi vudù della città. Finalmente possiamo rinfrescarci all’ombra degli alberi, sotto i portici decorati per la festa montati in semicerchio intorno a quello che sarà il palco dei riti: al centro viene piantato il parasole, sotto cui sono disposti alcuni feticci simboli delle divinità, quali Zangbeton e i temibili Rêvenants considerati “velenosi”.
Posti d’onore per i capi spirituali – lo Chef Daagbo e la sua prêtresse su troni vistosi – attendiamo l’arrivo delle autorità locali, stuzzicando i piatti tradizionali delle bonnes dames (attieké a base di manioca e haricots di legumi) mentre assistiamo alle danze tipiche, come quella “del pollo” – così detta per la chiara similitudine con il movimento del volatile in questione – accompagnate dall’immancabile musica dei tam tam, questa volta amplificata da moderne casse di risonanza. Scortato da famiglia e militari, arriva il sindaco Adjovi: il tempo di un saluto ai capi spirituali (omaggio particolare a Chef Daagbo) e di un augurio di “Bonne Fête!” ai presenti, e riparte dando inizio alle manifestazioni degli adepti di vari culti. A turno sfilano per primi gruppi di bambini, allievi dei conventi: alcuni vestiti con abiti tradizionali e ricoperti di collane e pietre sacre, altri indossano maschere sul cui copricapo spicca il simbolo delle divinità personificate: Elefante, Leone, Serpente. A sorprendere, è soprattutto il loro talento nella danza.
Seguono quindi gli Zangbeton, che ballando vengono lentamente spogliati degli anelli di paglia che li compongono, per svelare infine la propria magia: non c’è niente al loro interno! Ma a una verifica successiva, da ogni Zangbeton vengono fuori animali sacrificali: nello specifico granchi e polli. Lentamente vengono disposti in semicerchio alcuni feticci: spiccano i Gemelli, Zo, dio del fuoco, ed Egou, dio del ferro. Tra gli iniziati qualcuno “suona” letteralmente alcuni feticci – quelli dotati di fischietti – o infila sigarette in bocca ai feticci di Zo, fumandole per loro. Appaiono gli adepti di Thron, marito della dea Mamiumatà: visibilmente allucinati, vestiti con gonne a balze di pagne variopinti e cosparsi di borotalco (utilizzato insieme al profumo nelle cerimonie di Thron) dapprima si distendono vicino ai feticci buttandosi addosso a turno altro borotalco, poi si alzano e iniziano a ballare sempre più velocemente, alcuni raggiungono la trance.
Usciti di scena, i partecipanti più entusiasti si lasciano trasportare dal ritmo invitante dei tamburi e ballano al centro del cerchio; inizio ad applaudire insieme agli altri, sottolineando il ritmo, cercando di dargli vigore e forza, come avevamo fatto al mattino stringendoci la mano per omaggiare le divinità; alcuni turisti non resistono alla tentazione e si uniscono alle danze, con l’approvazione entusiastica dei beninesi. Il gruppo successivo, gli adepti di Zakpatà, dio della terra, è ancora più sconvolgente: gli adepti, in gonnellino di paglia, sfilano in trance agitandosi sempre più a ritmo di musica, con magistrali piroette nell’aria, battendo il terreno con i piedi e gettandosi addosso una pasta liquida (huile rouge e farina di mais); uno di loro si provoca lievi incisioni con un coltello, continuando la danza. La prêtresse di Zakpatà si avvicina ai suoi adepti per condurli lungo la trance: a turno, prende un piccolo sorso di alcol da un bicchiere e lo sputa su petto, schiena e testa, e ne versa ancora un po’ sul piede destro e sulle mani. Allo stesso modo, altri gruppi di adepti si danno a esibizioni simili.
A chiusura della festa, uno Chef Vudù ringrazia le divinità procedendo al rito del sacrificio di un pollo: sgozzato l’animale, il suo sangue è versato sulla terra e sui feticci.
È importante comprendere che queste pratiche, bizzarre e talvolta anche violente agli occhi degli estranei, sono le modalità specifiche che questi popoli hanno sviluppato nel corso di secoli per , filtrandole secondo la propria cultura e l’ambiente fisico: la trance è un processo che porta la persona nella dimensione spirituale, permettendole di comunicare con la divinità, sottomettendosi e abbandonandosi ad essa in maniera totale (come nel rapporto tra fedele e dio di qualunque religione), come testimoniano le lesioni auto-inferte, ma pur sempre sotto la guida di prêtre o prêtresse vudù.
Infine torno con i miei compagni di viaggio a bordo di un carretto a motore pensando che, se anche non ho visto un uomo camminare sulle acque, almeno io non sono ritornata a piedi.