Nel mese di luglio nell’isola di Haiti si sono scatenate alcune manifestazioni popolari contro il governo, in particolare nella capitale Port-au-Prince: negli scontri due persone sono state uccise. Le tensioni hanno poi assunto la forma della protesta pacifica e senza tregua. Il nostro collega di CISV, Alessandro Demarchi, è stato ad Haiti una settimana dopo le manifestazioni di piazza e in questa breve intervista ci spiega cos’è successo in quei giorni e perché.
Qui in Italia sono arrivate notizie di scontri, quali sono state le tue impressioni, cosa è successo davvero per le strade di Haiti?
Devo ammettere che sono partito con un po’ di preoccupazione: il moto di protesta che avevo seguito praticamente in diretta sui social era stato davvero violento. Fino a quando sarebbe durato? Sarebbe proseguito e degenerato? La protesta è continuata, ma si è trasformata in manifestazioni pacifiche e ha prodotto un cambiamento significativo, inducendo il governo alle dimissioni. Ho deciso quindi di partire e ho potuto girare per la città per i miei incontri e visitare anche le zone di progetto più lontane in assoluta tranquillità e sicurezza. Le strade ripulite dai blocchi e dalle barricate consentivano la circolazione, sia pure nei limiti dell’abituale traffico caotico; gli uffici e i negozi erano aperti. Ho potuto assaggiare la vita lavorativa in città, cosa per me inusuale: solitamente viaggio nelle zone rurali, “ad Haiti”, come dicono là per distinguere la provincia dalla capitale Port-au-Prince. E al di là del traffico e dello smog ho respirato un clima di dinamismo ed energia che mi ha sorpreso.
Qual era il motivo della protesta?
Haiti sta vivendo un periodo di manifestazioni di piazza per lo scandalo PETROCARIBE, la compagnia pubblica di carburante del Venezuela. Per un accordo di cooperazione tra Stati, il governo haitiano comperava dal Venezuela carburante a prezzo scontato, a condizione di investire quanto risparmiato in opere sociali e infrastrutture di pubblica utilità, risaldando il debito a un tasso molto agevolato. A luglio però il governo, spinto dal Fondo Monetario internazionale, ha aumentato di quasi il doppio il prezzo del carburante mettendo in ginocchio il trasporto pubblico (e non solo). Il popolo ha reagito scendendo in piazza, danneggiando edifici e imprese private (come supermercati, attività commerciali e alberghi) di proprietà di famiglie vicine all’attuale presidente. A questi scontri è seguito il rientro del provvedimento di aumento e le dimissioni del primo ministro e, di conseguenza, di tutto il governo. Non pago, il popolo vuole andare oltre ed esige giustizia: come mai il governo non riusciva a saldare un debito così vantaggioso? Dov’erano le opere di pubblica utilità per la popolazione haitiana? E perché le autorità venezuelane non denunciavano il non impiego del denaro prestato con questo vincolo, rendendosi complici del governo inadempiente? La cosa sorprendente non sta nella riuscita della protesta. Il popolo, che finora ha sempre trovato nella manifestazioni di forza un modo di far sentire la propria voce, ha dato il via a una nuova forma di protesta. Un movimento di massa, senza manifestanti mercenari introdotti, che chiede giustizia, senza rassegnazione: “kote kòb Petrokaribe?” (Dove sono i soldi PetroCaribe?) è una mobilitazione ancora in corso in piazza e sui social, che sta rendendo protagonista il popolo haitiano, fermo e tenace nella sua presa di posizione pacifica contro la corruzione del governo. Staremo a vedere cosa succederà, ora che pochissimi giorni fa il nuovo governo si è insediato e il popolo continua a chiedere conto. D’altro canto, finalmente le persone non se la prendono più con le ong (spesso accusate di corruzione, “nemiche” che vengono da fuori per guadagnare sulle vite di chi già si trova in difficoltà), ma chiede un cambiamento interno, con una presa di coscienza diffusa sui reali problemi del Paese. E questo è già un passo avanti per non farsi “distrarre”.
Cosa hai fatto durante la missione?
Ho incontrato in capitale i partner del nostro progetto: insieme vogliamo supportare otto centri di accoglienza per bambini disabili o che hanno avuto problemi con la giustizia (quando vivevano in strada) per trasformarli in centri diurni, responsabilizzando le famiglie di origine o assicurando agli orfani una famiglia adottiva. La legislazione haitiana sull’infanzia è molto accurata, ma la strada per i diritti dei bambini e delle bambine è ancora lunga: tanti bimbi disabili nascono “indesiderati” e immediatamente sono abbandonati in orfanotrofio e la stessa cosa vale per i ragazzi più grandicelli, lasciati a se stessi, che crescono accumulando guai con la giustizia. Questi bambini fragili sono spesso vittime di abusi.
Crediamo che lavorare insieme alle famiglie per accompagnarle in un percorso psicologico e culturale di conoscenza e accettazione, lavorare insieme ai centri per un piano pedagogico condiviso, proporre una formazione per gli educatori, fornire strumentazione fisioterapica (protesi, carrozzine…), avvalendoci del sostegno di università e centri di ricerca, possa davvero cambiare la vita di questi 700 bambini. Ne varrebbe la pena anche se fossero dieci o solo uno.
Di tanti incontri quale ti ha maggiormente colpito?
Senza dubbio quello degli operatori dei centri di accoglienza. Tante persone che ogni giorno, silenziosamente, fanno cose straordinarie. Portano avanti un lavoro nascosto agli occhi del mondo, con una dedizione assoluta, un lavoro umanamente faticoso con persone così sole e così in difficoltà. Lo fanno costruendo passo dopo passo una grande famiglia, una Comunità, dove i più grandi aiutano i più piccoli, dove si cresce nel servizio, e la possibilità di dare una vita dignitosa, cura e affetto a questi bambini è reale. Ed è la strada giusta da percorre per affermare i diritti non solo di questi, ma di tutti i bambini.