di Carlotta Fiorino, Coordinatrice CISV progetto PAISIM
Il mondo sta cambiando e continuerà a mutare come ha sempre fatto. Ovunque assistiamo a significativi fenomeni di solidarietà e coesione sociale che fino a ieri per molti di noi, soprattutto in alcuni contesti, erano inimmaginabili: il panettiere che mette a servizio del condominio competenze e materie prime, flash mob musicali dal balcone di gruppi o cantanti più o meno celebri e volontari, spesso silenziosi, che mettono a disposizione il proprio tempo per andare a fare la spesa per chi non può farlo.
Ebbene, chi come me è cresciuto in una città come Torino si ricorderà bene che la vita del “prima Covid” era ben diversa: personalmente non nego, vergognandomi molto, di non conoscere per nulla i miei vicini di casa – ed essere lontana non è una scusa – e che qualche volta ho volutamente evitato “quell’anziana signora” un po’chiacchierona del portone accanto – e anche qui la mancanza di tempo non è una giustificazione.
La vita del “dopo Covid” – qualora esistesse una dialettica del “prima e del dopo” vissuta come spartiacque nella propria linea temporale – la immagino come un’opportunità per portare con noi le esperienze sociali vissute; perché credo sia fondamentale prepararci a ciò che la pandemia ci lascerà in eredità, ovvero un secondo disastro, quello economico.
Da decenni ormai, anche in Senegal, la questione sociale si pone in maniera sempre più evidente con un aumento esponenziale della domanda di beni e servizi sociali, cui i diversi i sistemi di welfare statale faticano a dare una risposta. Questa pandemia pare abbia scoperto quel velo di Maya che considerava il welfare statale come parzialmente marginale, qualcosa di cui occuparsi sempre dopo nuove priorità.
Nel 2008, all’inizio del crollo finanziario, Rahm Emanuel, capo gabinetto del primo governo Obama, disse una frase divenuta celebre: “non lasciare mai che una crisi diventi un’occasione sprecata”. Con il senno del poi dovremmo vivere questo secondo disastro che ci si prospetta con più consapevolezza rispetto alle occasioni che ne potrebbero scaturire.
Quella crisi dapprima finanziaria, da cui non siamo mai davvero e pienamente usciti, ci ha comunque permesso di guardare all’economia riprogettandola attraverso approcci sostenibili allo sviluppo rispondenti ai bisogni e desideri della comunità e di muovere quindi i primi passi per definire concetti come “economia circolare, blu, sociale, solidale, verde”.
In Senegal sto lavorando, come coordinatrice di un Programma d’appoggio all’imprenditoria sociale e all’iniziativa migrante co-finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, proprio sul tema dell’Economia Sociale e Solidale con focus sull’imprenditoria sociale contadina.
A oggi non posso che domandarmi se questo mondo non possa davvero essere una delle chiavi per portare le istituzioni a rispondere sempre più e meglio ai
bisogni e necessità sociali delle comunità. Ci sono zone e ambiti, ad esempio il contesto pastorale, dove gli organi statali faticano a identificare in termini tanto geografici quanto di espressione di bisogni le reali necessità della popolazione locale. In questo le imprese sociali, per definizione immerse nel tessuto della comunità in cui intervengono, potrebbero essere snodo fondamentale.
Spero e credo che lo strascico lasciato dalla pandemia non rappresenterà un punto di arresto, ma una spinta maggiore verso una transizione vera e propria a questi e altri nuovi approcci che integrino la componente collettiva e comunitaria, in Senegal, come in Italia e nel resto del mondo.
Foto di Andrea Borgarello