Quali alternative al riso in Senegal?
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di Rosa Pietroiusti, volontaria Servizio Civile in Senegal

 

Pur essendo un Paese di dimensioni relativamente piccole – 197.000 km 2 rispetto ai 300.000 km 2 dell’Italia – il Senegal nasconde una varietà di paesaggi sorprendente.

Dall’arida brousse che circonda città come Louga e Thiès, e gran parte dell’interno, si passa verso sud alle splendide lagune del Sine Saaloum e della Casamance. Durante la stagione delle piogge, i campi delle zone normalmente aride si popolano di piantine di miglio, fagiolo o arachide.

In altre parti del Paese, invece, l’agricoltura è praticata tutto l’anno grazie all’irrigazione. È il caso delle dune del cosiddetto “Niayes”, fulcro della produzione orticola nazionale, e del Delta del fiume Senegal nella regione di Saint Louis, cuore della coltivazione intensiva di riso.

Proprio tra il miglio, coltura pluviale caratteristica del centro-sud, e il riso, per circa l’80% prodotto in coltura irrigata e intensiva nel nord, si gioca la battaglia per il “cereale alimento base” della dieta senegalese. Questa lotta si materializza in due piatti tipici: da un lato il ceebu jien, letteralmente “riso e pesce”, piatto nazionale indiscusso all’ora di pranzo, e dall’altro il thiéré, un delizioso e scuro cous cous prodotto con il miglio, che si mangia con salsa di carne o pesce all’ora di cena.

Il progetto PAISIM lavora con le imprese sociali delle regioni di Saint Louis, Louga (nord) e Thiès (centro), quindi sostiene entrambe queste filiere cerealicole. Poiché però il consumo di riso eccede di molto la produzione nazionale (circa il 65% del riso consumato è importato dall’estero), sostenere l’uso di alimenti locali vuol spesso dire incoraggiare il consumo di cerali alternativi, tra cui miglio, fonio e mais, o di legumi come il niebé (fagiolo locale).

Awa Thiandoum, trasformatrice di cereali locali sostenuta dal progetto PAISIM e attivista di lunga data nel movimento contadino, lo sa benissimo. Nella sua bottega nella città di Thiès vende gli alimenti locali che produce con le donne della sua impresa Siggil Jiggen (letteralmente, “sostieni la donna”).

Indicandomi i vari sacchetti sugli scaffali, mi introduce alla varietà dei prodotti cerealicoli e mi dà consigli su metodi di preparazione e ricette: per quanto riguarda il miglio, passiamo dal thiéré, cous cous di fina granulometria, al thiakry, di granulometria superiore, che si mangia tipicamente con lo yogurt dolce. Passiamo poi all’araw, palline più grandi e più chiare fatte con la farina di miglio, che si fanno bollire nell’acqua fino a ottenere un porridge abbastanza denso, da mangiare con lo yogurt.

La notte le signore senegalesi si siedono per le strade delle città e da grandi calebasse che stringono tra le gambe vendono bustine di 100 franchi (0,15 euro) di thiéré cotto al vapore.

Il miglio è una coltura che dà bassi rendimenti (0,5-2 t/ha), ma è coltivabile in zone non irrigabili e richiede molte meno spese e input rispetto al riso (4-7 t/ha in coltura irrigata). Questo cereale è spesso presentato come un alimento “tradizionale” del Senegal. In effetti, mentre una specie tipicamente africana di riso, l’Oryza glaberrima, è coltivata da centinaia d’anni nelle lagune della Casamance, il consumo massiccio di riso anche nelle zone aride del centro-nord è relativamente recente.

Iniziò con le importazioni di riso asiatico (Oryza sativa, lo stesso che consumiamo in Europa) dalle colonie francesi dell’Indocina. Solo dopo l’indipendenza del Senegal dalla Francia nel 1960, quando il riso era ormai popolare in tutto il Paese, si iniziò a coltivarlo in modo intensivo, costruendo apposite opere irrigue.

L’incremento del consumo di riso in Senegal è inarrestabile, in gran parte a causa della crescita demografica e dell’urbanizzazione. L’aumento della sua produzione a livello nazionale è dunque auspicabile.

A questa tendenza si dovrà però accostare anche una valorizzazione dei cereali alternativi, in particolare il miglio, non solo per motivi culinari e culturali, ma anche per ragioni d’impatto ambientale, per assicurare una diversità di colture, e per sostenere le regioni non risicole.

Questo sostegno, sia per il miglio che per il riso, include il rafforzamento della commercializzazione della produzione nazionale, tematica su cui lavora il PAISIM grazie al meccanismo di “franchise sociale” che l’impresa sociale CAPER SAS, partner chiave del progetto, sta costruendo.

A favore della diversificazione colturale, sono in molti a pensare che l’obiettivo di “autosufficienza nazionale in riso”, caro al presidente in carica Macky Sall, sia lungi dall’essere raggiunto, o persino irraggiungibile.

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