di Francesco De Falchi (in Burundi dal 1994 al 1999)
- Rientrando dal paese africano, l’ultimo burundese che ho visto e salutato è stato un giovane seminarista di 20 anni, anche lui scout. Abbiamo viaggiato sullo stesso aereo; era su una sedia a rotelle, sul viso un’espressione innocente e sorridente, il suo primo viaggio in aereo. Un colpo di kalashnikov nella spina dorsale. Un superstite del massacro del Seminario di Buta dove sono stati uccisi 37 seminaristi.
- La prima volta che sono stato in Burundi è stato nel 1994. Ho assistito e ho vissuto il formarsi del campo di Mugano, a nord di Muyinga, verso il confine ruandese. In poche settimane al campo sono arrivate 37.000 persone: i fuggiaschi del genocidio del Ruanda. In una situazione in cui la tragedia, il dolore, la paura, la povertà avevano dimensioni bibliche ho potuto verificare la grande dignità, la paziente sopportazione, la solidarietà, la disponibilità all’impegno, la volontà di vivere di gente che aveva nel cuore e nello sguardo la morte, il massacro di un milione di persone.
- La messa la domenica. Da quella dei centri minori come Muyinga dove il profondo, cupo ritmo dei grandi tamburi esalta i canti tradizionali, a quella della cattedrale di Bujumbura, trasmessa anche per radio con un coro particolarmente curato, a quella più di élite nel mistico chiostro della Nunziatura, testimoniano nella popolazione una grande tensione religiosa, certo differente e lontana dal tiepido clima delle nostre parrocchie; la gente vestita a festa è ammassata e, disciplinata, partecipa al rito con attenzione e vitalità. E nel contempo la tragedia della Chiesa locale così compromessa nella contrapposizione etnica e con il suo tributo di vescovi, sacerdoti e suore, morti ammazzati.
- Per circa un anno, da quando sono stato laggiù, ha dominato la paura sulle colline: non si vedeva anima viva, le case sventrate e abbandonate. Ma nei forni alcuni giovani artigiani continuavano a fare tegole e con loro avviammo il lavoro di riorganizzazione dei gruppi e del ripristino degli impianti. Poi finalmente, gradualmente è tornata una relativa sicurezza grazie al fatto che i militari hanno progressivamente guadagnato il controllo di gran parte del territorio. Le colline si ripopolano, si rianimano; riprendono i mercati e il via vai per le strade. Si deve aspettare ancora qualche mese e poi la gente comincia a ricostruirsi la casa. Finalmente i forni possono lavorare, arrivano le prime commesse importanti; sono felice anche se resta dentro un drammatico interrogativo: quanto durerà?
- La popolazione è sparsa sulle colline del Burundi occupando e coltivando ogni spazio possibile. Il paesaggio è punteggiato dalle piccole abitazioni seminascoste tra i palmeti. Ma qua e là sulle colline emergono fabbricati sproporzionati che, nel confronto con le casette dal tetto di paglia appaiono enormi. Sono le chiese, gli edifici parrocchiali ben costruiti in mattoni cotti, in stile a volte vagamente neogotico con ampi spazi interni per ospitare scuole, il centro sanitario e magari qualche attività artigianale. Nei capoluoghi di provincia analoga impressione si ha osservando le sedi vescovili, dove si trovano anche gli economati in cui si svolgono le attività commerciali della Diocesi.
La Chiesa, le parrocchie, le sedi delle Missioni sono riferimenti importanti per la popolazione; sono, su questo territorio sprovvisto di strutture industriali e commerciali, sedi di potere reale, sono i terminali e il filtro finale della rete di solidarietà internazionale operante nel mondo cattolico e cristiano.
Anche qui la storia si ripete: ricchezza o povertà, potenza o debolezza della Chiesa nel Mondo?
- E’ il ’97. Lasciando la capitale Bujumbura per raggiungere le cittadine dell’interno, sulla strada che dolcemente segue i fianchi delle colline, si incontrano soltanto macchine e automezzi delle Agenzie Onu e delle Organizzazioni umanitarie, a parte rari minibus stracarichi di persone e di mercanzie che collegano i centri abitati del Paese e i camion che riescono a forare l’embargo cui è sottoposto il Burundi.
Gli automezzi sono il segno più visibile della presenza del Nord del mondo in questo piccolo pezzetto del Sud del mondo: è raro vedere dei “musungu” – dei bianchi – tra la gente. Li trovi la domenica al circolo nautico in riva al lago, oppure al Novotel o nei restorants un po’ esclusivi della capitale; ne avverti la presenza nei quartieri residenziali per le guardie ai cancelli di ingresso delle ville, per i cucinieri – i boys – che rientrano dal mercato con la spesa. Insomma, la modesta colonia bianca vive distaccata e diffidente un suo lussuoso apartheid senza nascondere una sua compiaciuta consapevolezza per la “dedizione” con cui soccorre e assiste quello che considera il povero, martoriato e sottosviluppato (e cioè ignorante, infido, incapace di autonomia) popolo burundese.
Di quanto denaro, di quanto potere è portatore e rappresentante nonché fruitore questo piccolo gruppo di persone? qual è la percentuale delle risorse destinate a questo Paese che arriva alla gente cui sarebbero destinate?
Ma ancora più grave ho avvertito nel rapporto dei “musungu” con i locali la presunzione e l’arroganza, la mancanza di rispetto. La difficoltà se non l’indisponibilità per rapporti umani e sociali alla pari e la diffidenza che penso essere propri di un comportamento tuttora colonialista. Ma forse a questo contribuisce anche l’impoverimento, l’inaridimento del contesto socio-culturale, e spirituale, in cui noi del Nord viviamo.
Certo è che con quella gente ho sperimentato la difficoltà e la bellezza della fede, della speranza, della carità.