di Cecilia Pasini, volontaria di Ritorno alla terra – CISV
Ho trascorso dieci giorni a Demonte per il progetto “Ritorno alla terra”, ma mi sono bastate poche ore, appena arrivata in valle Stura in compagnia di Roberto, per appassionarmi a Germinale. L’idea che ha spinto Roberto, Marcella, Giulia, Ibrahim, Camara, Sheck e Abba è stata quella di sfruttare insieme alla comunità di Demonte una terra ottenuta grazie all’associazione “Insieme diamoci una mano” in comodato d’uso dal comune. La volontà che ha mosso questa azione è stata quella di creare reti sociali ed economiche che potessero aiutare i cittadini del paese e non solo.
Il progetto è ambizioso nel suo principio, richiede infatti ai cittadini un investimento sostanziale. Ma non del tipo di investimenti a cui si pensa solitamente quando si parla di “progetti ambiziosi”. L’idea è, infatti, che nessuno debba investire denaro. Tempo ed energia, però, quelli sì. Ai partecipanti viene chiesto di unirsi in un progetto comune, coordinandosi e lavorando insieme senza, come primo obiettivo, il guadagno. “La prima cosa è costruire una rete di solidarietà, in modo che i soggetti più fragili della comunità non restino soli. Poi viene la sussistenza e, per chi ne ha necessità, il guadagno economico”, racconta Roberto, il “teorico” del progetto, come lo descrivono gli altri partecipanti. Nel concreto, la piccola comunità di Germinale della quale ho fatto parte per dieci giorni, si trova due, tre o quattro volte a settimana secondo la necessità nei due orti dove la verdura cresce rigogliosa, grazie sì al buon lavoro del gruppo, ma anche all’aria buona della terra montana bagnata dallo Stura. Gli altri abitanti del paese, seppur diffidenti all’inizio del progetto e restii nel prendervi parte, acquistano i prodotti dell’orto sociale, alcuni principalmente per dare una mano, altri perché i prodotti sono buoni e genuini.
Vivere d’agricoltura è, ho avuto modo di toccarlo con mano, faticoso. Lavorare all’aria aperta sui campi, coltivare la verdura che sarà poi servita a tavola, alzare lo sguardo dal proprio mestiere e vedere di fronte a sé distese di monti e boschi di conifere lo rende un lavoro magico. E’ però anche implacabile, come la natura stessa. E’ un lavoro soggetto alle minime variazioni climatiche e spesso non concede un surplus che permetta di sopperire a tutti quegli aspetti della vita che non siano nutrirsi di buoni prodotti della terra. Roberto si batte da anni per migliorare la condizione legislativa dei piccoli agricoltori che, nell’era del fanatismo del locale e del fiato speso a biasimare l’agricoltura intensiva delle grandi aziende, rimangono soggetti deboli sotto la costante minaccia di non riuscire a far sopravvivere la propria attività.
La parte africana del progetto, i ragazzi senegalesi, parlottano fra loro in un misto di Wolof e di Pulaar piegati sulle piante di fagiolini o sradicando mais, si impegnano, imparano e fanno a gara nel vantare abilità agricole. Tengono molto a questo progetto che, hanno fiducia, può essere per loro una possibilità per il futuro. A Festiona sono insieme ad altri 25 compagni stranieri, molti da Mali e Senegal, alcuni dal Sudest asiatico, in attesa della risposta della Commissione Territoriale in merito alle loro richieste di asilo. Per loro avere una prospettiva per il futuro è un appiglio importante. Una necessità mordente li porta sugli orti, dove arrivano in bicicletta o accompagnati in macchina da Marcella e Roberto e dove lavorano in modo costante su una terra che considerano un po’ la loro.
Questo ritorno alla terra è stato per me la scoperta della montagna, di stili di vita rispettosi della natura, che ne seguono il respiro, si adattano e convivono con essa in un modo che, visto dalla città, è davvero difficile da concepire. Tornare a vedere cemento là dove ci si era abituati a vedere il verde degli alberi, è stato difficile. Questa difficoltà è l’unico motivo per cui sconsiglio l’esperienza: una volta tornati alla terra, ri-tornare alla città sarà estremamente difficile.
Cecilia