HAITI, IL BUSINESS DEGLI USA

di Marco Bello

 

Il Paese è in ebollizione. La popolazione è allo stremo. Gli strati sociali più bassi sono vicini alla ribellione. Il potere inizia timidamente a capirlo e sta cercando di concedere qualche spazio. La popolazione, a cinque anni dal terremoto del 12 gennaio 2010, ha visto la propria situazione peggiorare sempre più. Ci sono partiti politici e piattaforme di partiti – la cosiddetta “opposizione radicale” – che fomentano le masse e non vogliono scendere a patti: Fanmi Lavalas (il partito di Jean-Bertrand Arisitide, grande manovratore dietro le quinte), Mopod (Movimento patriottico di opposizione democratica, piattaforma di diversi partiti) e Pitit Dessalin (in creolo: figli di Dessaline). I sindacati sono molto agguerriti, in particolare quelli del tessile, degli insegnanti, dei trasporti, e organizzano manifestazioni che si fondono con quelle dei partiti radicali, i quali chiedono le dimissioni del presidente Michel Martelly.

Il carnevale prende ancora molto spazio: inizia un mese prima e finisce oltre un mese dopo con le bande Ra ra che imperversano.

Cosa è successo delle speranze degli haitiani nate dopo il terremoto? Speranze di poter finalmente cambiare qualcosa. Cosa si è realizzato di quelle idee, aspettative e progetti, anche molto concreti, e cosa invece no, in questi cinque anni?
Cosa hanno fatto i governi haitiani che si sono succeduti e in particolare il presidente Martelly?
Cosa ha fatto la comunità internazionale? E la società civile? E cosa non ha fatto o non è stata capace di fare?

Di certo le organizzazioni e le piattaforme di associazioni non hanno saputo coordinarsi, unirsi, agire insieme. Avere una forza, dare concretezza alle proprie idee con uno spirito di unità. Non sono riuscite a ricreare il contesto che avevano saputo ottenere per l’elezione di Aristide a fine 1990.

Il governo, meglio i governi, o lo Stato haitiano, di certo non ha dato spazio alla società civile, e questa non è riuscita a fare pressing per prenderselo. Eppure il governo al momento del terremoto, e poi per un anno, era ancora quello legato in un qualche modo, o derivato, dai movimenti sociali. In seguito no, da inizio 2011, un governo di destra duvalierista, anzi, un presidente “non democratico” che ha fatto di tutto per far precipitare il Paese in un ingorgo istituzionale, sommando così alla crisi economica e sociale quella politica.

Il modello imposto è stato quindi quello di Bill Clinton, degli Usa dei democratici, finti amici di Haiti. Ovvero “zone franche” per l’industria manifatturiera, per fare di Haiti un grande serbatoio di mano d’opera a bassissimo costo (il salario minimo è oggi di 200 gourd/giorno, circa 4 dollari Us, ma lo stipendio reale non supera i 3 dollari). Questo è il progetto di sempre, fin dall’epoca di Papa Doc (François Duvalier).

E poi il turismo di “alta gamma”, tre grandi hotel inaugurati, tra cui il Marriott, sfruttamento delle spiagge più belle da parte delle crociere statunitensi. Business della ricostruzione, a guadagno di fornitori Usa e intermediari dominicani.

Ma così dove va Haiti? O meglio dove vanno gli oltre nove milioni di haitiani al limite della sopravvivenza? Che importa? A chi importa? In Europa certo non interessa. Negli Usa il cittadino medio (nel caso conosca Haiti) lo vede come un Paese “buco nero” che bisogna continuamente aiutare, perché da soli non ce la fanno. E il suo governo deve sempre intervenire con i suoi soldi, quelli del contribuente per salvare la situazione (falso perché dal 2010 hanno usato i fondi della ricostruzione per pagare i soldati Usa intervenuti). Eppure il caro Bill Clinton, candido, sempre sorridente e senza pudore alcuno, ha presenziato all’inaugurazione dell’Hotel Marriott (che si vanta essere il primo ad Haiti di una catena internazionale) il 24 febbraio scorso.

Gli interessi economici statunitensi in Haiti sono evidenti.

Febbraio 2015