COSA TI HA FATTO PARTIRE?

La testimonianza “senza veli” di un cooperante al ritorno in Italia dopo tre anni di lavoro in Guinea

 

Testo e foto di Federico Mazzarella

I colori accesi degli abiti delle donne in festa e il suono spezzato delle percussioni ricavate dai tronchi del bambù. Questo mi viene in mente se mi isolo per un istante nell’insolito silenzio della mia casa in Italia e ritorno a dove mi trovavo fino a qualche giorno fa. Una sensazione strana su quel che mi circonda, che più di ogni altra mi dà chiaro il senso del ritorno: tutto è improvvisamente spento, fermo, silenzioso.

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In Guinea, in occasione della festa per una nascita, la tradizione esige che la donna più anziana della famiglia prepari a lungo il neonato con un preciso rituale di lavaggio e vestizione. Poi, insieme alle altre donne del villaggio, lo presenta alla comunità dopo aver lentamente compiuto tre giri completi intorno alla casa, quattro se il bimbo è un maschio. L’insondabile numerologia africana: nessuno la sa spiegare, ma nessuno si pone il problema. E’ una tradizione. Tutti la conoscono, tutti la rispettano da sempre. Solo dopo l’ultimo giro il gruppo si ferma davanti al padre del bambino. L’uomo prima lo ricopre di soldi, dono degli ospiti e immancabile augurio di buona sorte nella vita che lo attende, poi ad alta voce ne rivela finalmente il nome prescelto, fino allora tenuto segreto, rompendo il silenzio generale delle centinaia di presenti. Il nome scelto non è mai casuale: è quello di un parente prossimo, spesso un nonno o un amico d’infanzia, ma sempre una persona amata e importante per la famiglia. Il nome di un bambino in Guinea è un dono in sé: vuol essere un augurio, un auspicio, un ammonimento. Una volta reso noto il nome che il bambino porterà per tutta la vita, allora può iniziare una rumorosa e colorata festa che non finisce fino a notte fonda.

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Sono istanti di una delle molte celebrazioni famigliari alle quali sono stato invitato durante i miei tre anni in Africa.

Per un cooperante, tornare a casa dopo un lungo periodo di lavoro non è un momento facile. Tre anni passati in un Paese come la Guinea, sempre in fretta e sotto pressione, chiedono di essere compresi, messi a posto, ricostruiti. Per farlo bisogna ripartire da capo: per capire che cosa hai imparato devi ricordarti perché sei partito.

‘Cosa ti ha fatto partire?’.

Una domanda che mi hanno posto troppe volte, ma che forse proprio per questo io non mi sono posto abbastanza. Lasciare una vita nel mio paese, i miei amici e la mia famiglia, per una vita forse di soddisfazioni, ma intanto di lontananza, spossatezza e sradicamento. Fingi di non saperlo, oppure senti di poterlo affrontare. O peggio, semplicemente lo ignori.

‘Sento solo di dover andare’.

Un arroccamento più che una risposta. Può forse bastare a genitori e amici, spesso più rassegnati che convinti, ma basta sempre meno a te stesso. Basta sempre meno quando ti trovi davanti a una realtà che pensavi di conoscere, quando devi rivedere idee che presto scopri confuse e convinzioni che improvvisamente percepisci troppo scontate. Basta sempre meno quando ti trovi a dover risolvere problemi sottovalutati, come spostarsi su strade inesistenti; a convivere con difficoltà prima inverosimili, come trovare un bicchiere d’acqua pulita durante una missione; a gestire paure molto concrete, come quella dell’ebola.

‘Cosa ti ha fatto partire?’.

Non te lo chiedono più gli altri, inizi a chiedertelo tu.

Inizi a risponderti, e parti da quello che hai imparato.

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Hai imparato che questo non è mestiere per santi o aspiranti tali. Hai imparato che la tua rabbia per il senso dell’ingiustizia che hai sempre sentito non passa con il tempo. Cambia, si complica, si fa adulta con te, ma non passa. Hai imparato che in questo mestiere non ci sono burocrati, delusi, indifferenti. E se ci sono, non restano per molto.

Hai imparato che ti hanno mentito quando ti hanno detto che questo è un mestiere come un altro, come spesso amano ripetere quelli che la sanno lunga. Hai imparato che certe qualità umane sono strumenti di lavoro quanto e più di quello che hai studiato. Hai imparato che non è un lavoro per eroi o avventurieri, ma neanche per insensibili o apatici. Un lavoro per persone entusiaste ma pazienti, per marciatori e non per velocisti.

Hai imparato che hai dei limiti che non immaginavi di trovare, ma anche delle qualità che non ti erano mai servite o forse avevi dimenticato di avere.

Hai imparato che la compassione è indispensabile, ma da sola non serve. Hai imparato che la pietà è un ostacolo e che il distacco è un’illusione.

Hai imparato a superare i limiti che hai, ma anche a fare un passo indietro quando sai che non puoi farcela, per non rovinare quel che sei partito per migliorare. Hai imparato che tutto quello che non fa parte della soluzione fa parte del problema, tu compreso.

Hai imparato che impari solo quello che sei disposto a imparare e che hai l’umiltà di ascoltare.

Hai imparato che l’integrazione è dove meno te l’aspetti. Hai imparato che ti scopri vicino e uguale a una persona litigando con lei e non risparmiandoti parole che altrove non ti saresti risparmiato.

Hai imparato che non sei quello che vuoi, ma quello che sei, quello che che hai vissuto e che ti porti dietro. E hai imparato che questo non è un problema.

Hai imparato che si cambia solo insieme. Hai imparato quello che i guineani ti ripetono spesso: ‘Se vuoi andare veloce, vai solo. Se vuoi andare lontano, aspetta gli altri’.

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‘Cosa ti ha fatto partire?’

Mi ha fatto partire ciò che non conoscevo e che non immaginavo di trovare.

Mi hanno fatto partire le persone che non sapevo che avrei incontrato. Amici. Li ho trovati in persone con le quali non ho nulla in comune, con le quali non sarei mai venuto a contatto e che ora non vedo l’ora di rincontrare.

Mi ha fatto partire l’umanità che non aspettavo di ricevere.

Mi hanno fatto partire le cose che ho visto cambiare e non avrei creduto potessero cambiare.

Mi ha fatto partire un neonato che non immaginavo sarebbe stato battezzato con il mio nome.

Qualcuno mi ha fatto osservare che forse le mie idee sono più confuse ora che tre anni fa, e le mie risposte sempre meno comprensibili. Sono d’accordo, me ne rendo conto io per primo.

Ma oggi nessuno mi domanda più cosa mi ha fatto partire. Da un po’ di tempo ormai mi chiedono solo perché voglio tornare.