Mali: un Paese ancora indenne dal boom dei contagi
Attivo

di Marta Zaffaroni, Rappresentante CISV in Mali

In Mali la pandemia è arrivata a metà marzo. Dato lo stato disastroso dell’apparato sanitario, si temevano conseguenze terribili. Da allora sono stati registrati in tutte le regioni 4.659 casi positivi, ma non si è mai verificato un vero e proprio boom di diffusioni come in Europa. Questo non deve far pensare che il Mali sia immune dal coronavirus. Probabilmente, come in altri Paesi africani, anche qui ci sono fattori del contesto che influenzano l’andamento della pandemia, quali la giovanissima età media della popolazione (che potrebbe spiegare la diffusione di casi per lo più asintomatici), e il fatto che si vive molto all’aria aperta e quindi le occasioni di trasmissione sono tutto sommato ridotte, un po’ come accaduto anche in Italia durante l’estate.

Inoltre, l’accesso alle cure sanitarie è molto limitato rispetto all’Europa, per cui alcuni casi potrebbero non venire identificati: quando l’Italia viveva il picco della pandemia in marzo-aprile, in Mali si effettuavano meno di 100 tamponi al giorno. Tuttavia, nelle ultime settimane ha iniziato ad aumentare anche qui il numero di tamponi realizzati e di casi positivi identificati. Solo ieri, ad esempio, sono stati registrati 92 casi positivi. È difficile capire perché ciò stia succedendo: alcuni attribuiscono la colpa al vento, che in questa stagione soffia forte, e che – anche in tempi normali – è all’origine di tanti malanni.

In ogni caso, in Mali i progetti CISV sono stati portati avanti regolarmente. Per tutelare il nostro personale abbiamo installato kit lavamani in ogni ufficio, fatto tanta informazione e distribuito gel igienizzante a tutti i collaboratori. Soprattutto, abbiamo identificato nuove pratiche anti-Covid che applichiamo in ogni attività, a seconda dei rischi che esse presentano: organizziamo incontri e formazioni il più possibile all’aria aperta, evitiamo di riunire più di 25 persone (come raccomanda anche lo Stato maliano), sensibilizziamo i partecipanti alle varie iniziative sui rischi legati alla pandemia. Tutto il personale dell’organizzazione che pratica attività sul terreno, come gli animatori, ha seguito una formazione online sulla gestione delle problematiche legate al Covid-19 e si sono tenuti incontri di sensibilizzazione delle comunità su questo tema.

Attualmente è in corso un progetto finanziato dalla cooperazione italiana, partito proprio tra febbraio e marzo, con l’obiettivo di rafforzare la resilienza della popolazione del Cercle di Douentza, un’area toccata dalla crisi e parzialmente occupata da gruppi armati, radicali e non. Attraverso questo progetto CISV promuove l’orticoltura come attività generatrice di reddito, capace anche di avere un impatto sullo stato nutrizionale della popolazione, e promuove in parallelo l’educazione alimentare, valorizzando la presenza di gruppi comunitari di sensibilizzazione su questi temi.

Data la situazione in cui ci siamo improvvisamente trovati a operare, abbiamo deciso di convertire una piccola parte delle attività del progetto in interventi per la prevenzione del Covid-19. In accordo con il finanziatore e con le autorità sanitarie, abbiamo scelto di procedere anche qui attraverso l’approccio comunitario, che contraddistingue sempre il nostro operato e che ci permette di lavorare anche in queste aree difficili. Per arrivare alla gente e trasmettere informazioni su come prevenire la trasmissione del virus, abbiamo così formato alcuni membri delle comunità con un ruolo sociale che permette loro di avere una forte influenza e capacità di farsi ascoltare: i capi villaggio, gli imam, le donne anziane che consigliano le più giovani, i terapeuti tradizionali.

Inoltre abbiamo identificato alcuni luoghi pubblici nei villaggi, come le moschee, i centri di salute, i mercati, le stazioni degli autobus e i toguna (strutture dove si svolgono le discussioni politiche più importanti) in cui distribuire kit per il lavaggio delle mani prodotti da artigiani locali: un modo per rendere accessibile questa buona pratica, sostenendo nel contempo l’economia locale.

Da un punto di vista “psicologico”, in questo momento viviamo una situazione molto strana. All’inizio la diffusione della pandemia aveva destato grandi preoccupazioni tra le persone; e tra colleghi si parlava molto della situazione drammatica che stava vivendo l’Italia. Tutti erano molto toccati da quanto stava accadendo.

I governi locali hanno quindi preso misure drastiche: le frontiere sono state chiuse da metà marzo a fine luglio, come anche ristoranti e bar, sono stati vietati gli assembramenti e si è istituito il coprifuoco. Tuttavia con il passare del tempo, data l’assenza di un vero boom di casi, tutte queste misure sono andate allentandosi e anche la preoccupazione della gente è scemata.

Adesso, con l’Europa in balìa di una seconda ondata, sembra di vivere in un mondo parallelo. Le nostre famiglie abitano in zone rosse o arancioni, mentre in Mali nessuno porta mascherine, i ristoranti sono aperti, le attività continuano come se niente fosse. Noi cerchiamo di rispettare le misure di protezione, sapendo che il virus è anche qui e che, se per ora non ha causato danni terribili, non sappiamo cosa ci riserva il futuro.

Prevenire è certamente meglio che curare.

Attivo