Esile, schiva, di poche parole… l’apparenza non rende giustizia alla sua grinta e alla sua tenacia: Anna Calavita, 30 anni il 22 marzo, torinese di nascita ma africana d’adozione, si “aggira” per il Sahel da 7 anni; da quando cioè, neo laureata in veterinaria, ha deciso di trasferirsi in Senegal per svolgere uno stage con l’associazione CISV, impegnata per il diritto al cibo e lo sviluppo delle attività agropastorali . «Mi è bastato il periodo di stage per innamorarmi per sempre dell’Africa, di cui apprezzo praticamente tutto: gli aspetti ambientali, la cultura, il sistema sociale… è tutto un altro modo di vivere rispetto al nostro, più semplice e più adatto al mio essere rispetto allo stile occidentale». Così Anna, che vive in Africa ormai da 4 anni, ha continuato a lavorare nei progetti CISV di sviluppo rurale fino a diventare cooperante ‘nomade’ in un programma multicountry, facendo la spola tra Niger, Burkina Faso, Mali e Senegal.
L’Africa in bus
Anna è una viaggiatrice sui generis, ai viaggi in aereo preferisce gli spostamenti a bordo dei mezzi pubblici, soprattutto sugli autobus che collegano i diversi paesi. «Ovviamente il viaggio risulta meno comodo, si allungano i tempi e si sta stipati, ma c’è il vantaggio di conoscere meglio le persone, si fa amicizia con i compagni e si resta più in contatto con quelli che sono i bisogni reali della gente». Un aspetto non da poco, visto che talvolta i cooperanti faticano a inserirsi nelle società in cui si trovano a operare. Anna invece è perfettamente ‘integrata’ e intrattiene buoni rapporti con tutti: dai vicini di casa ai i negozianti del quartiere, ai contadini e gli allevatori con cui lavora. «Amo molto la ‘filosofia’ che si respira in queste culture, c’è un modo di vivere più felice. Da noi in Italia ci facciamo troppi problemi per cose che in fondo non sono essenziali, invece qui in Africa le persone non si demoralizzano, trovano sempre il modo di risolvere le cose».
Gli spostamenti frequenti mettono però Anna in condizione di scontrarsi con qualche ‘malcostume’ locale: come quello dei dazi illegali alle frontiere. «Purtroppo quando si varcano i posti di blocco succede spesso che i poliziotti pretendano dalla gente dei soldi (che non vanno certo a finire nelle casse dello Stato…) con il pretesto di un documento mancante o con qualche altra scusa. Con noi bianchi lo fanno più di rado, sanno che siamo a posto con i documenti e soprattutto che conosciamo bene i nostri diritti. Ma con i loro connazionali va quasi sempre a finire che una quindicina di persone sono costrette a sborsare…».
Equilibrio uomo-ambiente
Anche dal punto di vista professionale, l’Africa ha dischiuso ad Anna nuovi orizzonti: «Qui c’è tutto un altro modo di allevare e gestire il bestiame, in equilibrio con la natura e le risorse disponibili. In occidente interessa solo la produzione economica, gli animali sono visti come fabbriche di carne e latte che devono produrre sempre di più. Certo anche in Africa interessa la produzione, ma si tiene maggiormente in conto il rispetto dell’equilibrio naturale. E’ un modo di allevare che dipende dall’ambiente, più che dalle possibilità economiche dell’allevatore». Purtroppo in Sahel (che in arabo significa “la riva del mare”), dove l’80% della popolazione vive in ambiente rurale e dove il settore zootecnico è la fonte primaria di guadagno (soprattutto per l’allevamento di mucche e capre) le frequenti siccità e i conflitti armati – come quello scoppiato di recente nel nord del Mali – determinano gravi crisi alimentari: ultima in ordine di tempo quella dello scorso anno, che ha messo in ginocchio 15 milioni di persone.
«Eppure non mancano fermenti di ripresa che fanno perno proprio attorno alla pratica, ‘riveduta e corretta’, del pastoralismo». L’allevamento nei paesi saheliani, ci spiega Anna, si basa sulla mobilità stagionale dei pastori e delle loro mandrie, come strategia di utilizzo ottimale dei territori e delle risorse naturali, soprattutto in zone aride e semi aride. Questa flessibilità degli spostamenti a seconda delle esigenze di pascolo e abbeveraggio delle mandrie fa delle pratiche nomadi/transumanti vere e proprie strategie di adattamento anti-crisi, potenziate da una serie di interventi che CISV porta avanti in collaborazione con l’Unione europea e la Regione Piemonte: dall’introduzione di tecniche innovative per una gestione più razionale dell’allevamento, all’attenzione per la corretta alimentazione del bestiame, fino all’applicazione dei programmi sanitari e delle misure igieniche, soprattutto per quanto riguarda la trasformazione e commercializzazione del latte.
Per una convivenza più pacifica
«L’obiettivo di questi interventi è garantire la sovranità alimentare delle popolazioni saheliane, cioè il diritto all’alimentazione nel rispetto delle singole culture e dei metodi contadini», spiega Anna. A questo si aggiungono anche questioni di tipo sociale, «perché gli spostamenti legati a nomadismo e/o transumanza finiscono per creare conflitti tra agricoltori e pastori, dato lo scarseggiare di pascoli e punti d’acqua superficiali, la pressione demografica crescente e la scarsa conoscenza, da parte degli allevatori, delle leggi che normano le piste e l’accesso ai punti di rifornimento». Per questo si stanno elaborando convenzioni locali per la gestione degli spazi; i diversi produttori presenti sul territorio si stanno dotando di regole condivise sull’utilizzo delle risorse, così da evitare tensioni e contrasti. «Un lavoro di questo tipo, anche in situazioni di aperto conflitto come nel caso maliano, può favorire una convivenza più pacifica, facilitando l’espressione e il dialogo delle diverse culture e dei diversi settori di attività», nota Anna.
Il conflitto in Mali ha imposto qualche battuta d’arresto ai viaggi continui della giovane veterinaria, che conta però, nel giro di poche settimane, di poter riprendere il lavoro anche nella zona di Sevarè. «In questi mesi insieme agli altri colleghi abbiamo comunque continuato le attività del progetto, che riguardano circa 30.000 beneficiari, coordinandoci con gli altri volontari maliani del CISV che sono presenti nella zona di Mopti».
Il progetto si sta anche impegnando a rafforzare il ruolo delle donne, che hanno una parte importante nel sistema produttivo, soprattutto per quanto riguarda le attività di trasformazione e commercializzazione del latte. Perciò «è importante dare loro l’opportunità di una partecipazione più diretta ai meccanismi decisionali della vita economica, sociale e politica, in difesa dei propri diritti» spiega Anna. A tal fine sono già stati realizzati alcuni corsi di formazione per un centinaio di donne in Senegal e Mali. Altre formazioni sono state rivolte a tutelare i pastori da possibili raggiri, e si sono realizzate trasmissioni radiofoniche, sedute di animazione teatrale nei villaggi e traduzione di documenti (come i testi legislativi) nella lingua delle etnie locali, fulfudé, bambara, dogon.
Anna adesso è impaziente di poter riprendere senza intoppi il suo lavoro in Mali, sembra quasi aver più nostalgia per questo paese martoriato dalla guerra che per l’Italia. «Rientro a casa un paio di volte l’anno, con la voglia e l’entusiasmo di ritrovare la mia famiglia, i miei affetti… Ma dopo due-tre settimane, inizia a mancarmi la vita africana e sono di nuovo pronta a tornare nella casa di quaggiù!».
di Stefania Garini
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