BURKINA FASO, DOVE IL TEMPO SCORRE DIVERSO

di Amarilli Varesio

C’è un uomo seduto all’ombra di un albero. Accasciato contro il tronco, sonnecchia apparentemente beato, per ore, senza preoccupazione alcuna. Il tempo non sembra turbarlo.
In testa porta un cappello di manghi gialli, paonazzi di sole di fine aprile. Aiutati dalle prime gocce celesti che segnano la fine della stagione secca, le cosiddette “piogge dei manghi”, che lavano i frutti perché possano essere mangiati e danno il giusto nutrimento e colorito a quelli già rossicci che timidamente si distaccano dall’uniformità della chioma.

La luce del sole inganna con strani giochi gli occhi , la brousse animata sembra ondeggiare e ribollire nell’atmosfera afosa.

La moglie del nostro uomo si avvicina con un passo dal ritmo cadenzato e lento. E’ una donna di media statura, con il viso segnato da ampie rughe e lo sguardo deciso. Ha il seno scoperto e la parte bassa del corpo avvolta da un tessuto colorato, arrotolato sui fianchi.
Porta la “vita” in testa, l’acqua trasportata in un grande contenitore di metallo da 10 o 20 l che il sole fa brillare come uno stravagante e ricco cappello da regina. Arrivata al focolare, rovescia l’acqua in un contenitore di argilla e, dopo una breve pausa in cui sistema il cucciolo addormentato sulla sua schiena e stretto saldamente nella stoffa, riprende il cammino verso il pozzo.
La stessa coreografia ogni giorno, per almeno 4 volte. Finito il sentiero che passa tra campi di miglio e sorgo – nuovamente lavorati e pronti per la semina in attesa delle piogge- mandrie di mucche e montoni seguiti da giovanotti con vestiti strappati e canne in mano, casette squadrate vicino alle quali donne robuste pestano nel mortaio il niebè, il fagiolo locale.

Quando raggiunge il cammino di laterite rossa più largo, dove ogni tanto passa qualche macchina sgarrupata che puntualmente rischia di scontrarsi con le greggi al pascolo, affiancata da altre ragazze e donne del villaggio si avventura nella brousse, a piedi scalzi. Il tempo non sembra turbarla. Il suo ritmo interno le indica in che momento deve battere e muovere i piedi, le mani, la testa e agire.

Dopo il tramonto, quando il lavoro è concluso e la cena è finita, brusii lontani si diffondono nell’aria, trilli di voci bianche che si accavallano e si scherniscono. Sono i bambini che arrivano. Non puoi più scappare, ti trovano.
Il fioco candore della luna rischiara leggero l’oscurità. Così, un po’ a tentoni, cerco la strada di casa. Riconosco il profilo del grande mango e la scrofa incinta legata con una corda ai piedi; svolto a sinistra e, all’improvviso, una piccola mano calda e rugosa agguanta la mia. Uno spirito, un folletto, un angelo… una bambina di quattro anni che libera passeggia nella notte. Non la vedo ma ride e canta, mi accompagna. In quell’istante mi sento protetta, avvolta, la mia coscienza si risveglia grazie al tocco inaspettato ed è meravigliata della fiducia donata.

Proseguiamo insieme. Guidati da qualche sesto senso, sentiamo un gruppo di bambini che corre verso noi con grida di gioia, come un branco di cavalli imbizzarriti. Nell’aria sognante della notte, mi accorgo di quanti sono solo quando mi travolgono. Piano piano, tra saluti, abbracci, stritolamenti, batti 5 e qualche graffio, arriviamo a casa.
Vogliono cantare, vogliono ballare. Al suono della chitarra si scatenano, battono le mani e si contorcono in danze bizzarre. Non conosco le loro canzoni, e loro non conoscono le mie. Ma non è quello l’importante. E’ la musica che conta. E’ quel battito vitale che chiama irresistibilmente il loro corpo a muoversi e provare gioia.
Nessun vicino reclama per il caos musicale che si è creato (non è ancora troppo tardi), nessun genitore arriva preoccupato, spaventato o arrabbiato per portare il figlio a casa.

I fratelli maggiori, a un certo momento, tirano per mano i fratellini più piccoli per andare a nanna, questi per un poco provano a ribellarsi alla loro autorità, ma poi scivolano docilmente insieme oltre il nostro fascio di luce a neon del cancello, nella loro notte oscura, con in testa un prato di stelle.

Ma noi sulla testa che cosa abbiamo?
Pensieri neri che rincorriamo, sogni frenetici che non gustiamo…

Al di là di alcuni tratti culturali che magari non si capiscono pienamente, delle visioni reciproche, sui bianchi, sui neri, distorte dalla storia passata e presente che pesa a volte nella costruzione di relazioni, ho trovato nelle persone incontrate qualità bellissime e da coltivare. Tranquillità, aiuto reciproco, apertura tra la gente e interesse. Un’interesse non sempre finalizzato allo scopo di avere un regalo o qualcos’altro, in cambio della gentilezza mostrata. A Dano, ho ritrovato la serenità di un tempo per me stessa e per l’incontro con gli altri. Un tempo che avevo perso da un po’, nei labirinti di una città caotica che offre molte occasioni ai suoi abitanti e fa correre a gambe levate piccoli uomini e piccole donne nella frenesia di allungare il giorno il più possibile.
Ammassando nelle nostre teste appuntamenti, idee, progetti, sogni… Nei cuori desideri, paure, ansie… che a volte fanno vivere il presente come una continua proiezione futura e perdere il gusto dell’incontro casuale, non organizzato, lento.

Probabilmente, in quel mondo così semplice e organizzato in modo diverso, sono sincronizzati con un orologio alternativo da quello del continente Europa; un orologio che non segna tutti i minuti della giornata, che non agita gli uomini fino a farli respirare affannosamente.
Li vedo muoversi come in un valzer lento, allegro, nonostante la fatica, ripetitivo, finalizzato a soddisfare i bisogni di base, a sostenere la propria numerosa famiglia e a seguire le regole della comunità che gli dà un senso di appartenenza e sicurezza, fondamentali al benessere. In questo loro ritmo, mi è sembrato di vederli sereni. E noi sulla testa che cosa abbiamo?