BRASILE: AGROECOLOGIA, UN “ADATTAMENTO FLESSIBILE”

di Josè Marques de Sousa Neto (*)

Da oltre 15 anni lavoro con il CISV a fianco delle popolazioni della Baixada Fluminense, le comunità tradizionali del Pantanal profondo, i campesinos e i pescatori del Ceará semiarido (terra dove sono nato). Stando accanto a questi gruppi umani, cioè i più poveri tra i poveri, abbiamo scelto di impegnarci soprattutto nel settore agricolo per garantire il diritto al cibo ma anche per offrire, specialmente ai giovani, occasioni di lavoro concrete, in un contesto di rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. E abbiamo individuato come percorso privilegiato l’agroecologia, che ci sembra la strada migliore da intraprendere sotto tutti i punti di vista: produttivo, economico, politico-sociale.

Oggi in Brasile si praticano due tipi principali di agricoltura: l’agrobusiness e l’agricoltura familiare dei campesinos. La prima, per intenderci, è l’agricoltura dei ricchi, vincolata ai processi industriali sia nella fase pre produttiva che in quella post produttiva. L’agricoltura familiare è invece praticata dagli strati più poveri della popolazione, finendo tuttavia per fornire il 70% degli alimenti brasiliani. E’ a questo livello che si pratica l’agroecologia. Essa non costituisce una novità “moderna” ma un sistema inscritto nella tradizione colturale (e culturale) dei campesinos, anche se poi dagli anni ’50-’60 il Paese è stato teatro della “rivoluzione verde”, con l’avvento in agricoltura della meccanizzazione, dei fertilizzanti di sintesi ecc. Per i contadini brasiliani l’agroecologia rappresenta dunque il recupero di un sapere, e di un saper-fare, antichi. La peculiarità del XXI secolo sta però nel fatto che questa conoscenza tradizionale è adesso riconosciuta e suffragata dalla scienza ufficiale. Così, dal dialogo tra agroecologia e nuovi approcci scientifici, emerge una terza forma di sapere, più sostenibile, più efficace e rispettosa dell’ambiente.

Dal punto di vista produttivo, l’agroecologia si caratterizza per il suo svincolarsi dai processi industriali, eliminando i pesticidi e i diserbanti, contrastando i parassiti attraverso il ricorso a sistemi naturali, e dedicando una cura particolare alla fertilità dei suoli. Qui entra in gioco una visione diametralmente opposta a quella dell’agricoltura convenzionale, che vede il terreno come un semplice sostrato in cui immettere piante e animali manipolandone a piacimento la fertilità, e finendo per produrre non tanto “alimenti” quanto piuttosto “merci”. Nell’agroecologia invece il suolo è considerato un essere vivente complesso, un ecosistema da comprendere e preservare. Un esempio è l’utilizzo di piante che riprendono la fertilità del suolo – come le leguminose – in un processo detto di “concime verde”. In casi come questi vediamo un nuovo rapporto uomo-ambiente, nella misura in cui l’uomo approfitta dei processi naturali per portare avanti dei processi nel proprio interesse ma sempre in armonia con l’ambiente.

Tutto questo ci conduce a un altro aspetto, quello economico. Spesso si crede erroneamente che, rinunciando ai fertilizzanti di sintesi e alla meccanizzazione, l’agroecologia sia condannata a una scarsa produttività. In realtà essa è ben più redditizia dell’agricoltura industriale, simile a un fuoco di paglia: molto produttiva nei primi 5 anni, l’agro-industria inizia presto una curva discendente, perché impoverisce i suoli, contamina le acque ecc.; e per questo ha bisogno di utilizzare sempre più terre, più spazi, più acqua, più risorse. E’ quello che succede in Brasile con le piantagioni di monocoltura, soia o canna da zucchero. Al contrario l’agroecologia fatica all’inizio a decollare, in un processo di transizione, le occorrono almeno 3-4 anni per andare a regime e diventare produttiva; ma nel medio-lungo periodo si rivela più sostenibile. Tant’è che la stessa FAO la riconosce oggi come il futuro dell’agricoltura a livello mondiale, unica in grado di sfamare il pianeta nei decenni a venire. Una ricerca della University of Michigan mostra che l’agricoltura ecologica potrebbe accrescere la produzione alimentare globale anche del 50%, arrivando a 4.581 chilocalorie a persona al giorno (contro le oltre 2.500 attuali) a livello mondiale. Il Brasile può essere un caso interessante perché, come si è visto, pur utilizzando solo il 30% delle terre e coltivando appezzamenti molto piccoli, i contadini che praticano l’agroecologia riescono da soli a produrre il 70% del cibo.

L’agro-industria si rivela dunque poco efficiente, con rese per ettaro via via più basse. Inoltre, se la policoltura tradizionale produce 100 unità di cibo ogni 5 unità di risorse, con l’agricoltura industriale ne occorrono addirittura 300: con una produttività per risorse immesse 60 volte maggiore.

Bisogna però stare attenti a non confondere l’agroecologia con l’agricoltura organica che, pur cercando di produrre alimenti più sani e salutari, è ancora vincolata ai processi industriali e al sistema capitalistico, ad esempio nell’acquisto degli input produttivi: aziende come Monsanto, Bayer e Du Pont stanno mettendo contemporaneamente sul mercato sementi Ogm e prodotti per l’agricoltura organica attraverso ditte vincolate al loro gruppi.

Un terzo aspetto dell’agroecologia è quello politico-sociale, in quanto essa mette in questione i rapporti di lavoro, umani ed economici, all’interno dei processi produttivi. A essere in gioco è la giustizia sociale. Come succede nel caso brasiliano, dove vi è la necessità urgente di fare una vera riforma agraria in cui la proprietà terriera vada in mano a coloro che hanno un rapporto con la terra al di là dei processi economici capitalistici.

Per tutti i motivi suddetti si comprende perché l’agroecologia rappresenti oggi lo strumento migliore nelle mani dei brasiliani, soprattutto i più poveri, per affrontare gli effetti e le conseguenze del riscaldamento globale e dei mutamenti climatici. Per i campesinos l’agroecologia costituisce una delle principali risposte sulla via della “resilienza”, cioè dell’adattamento flessibile alle sfide ambientali. Con un’avvertenza: essa non si prospetta solo come “un altro modo” di fare agricoltura, bensì come una nuova scienza della complessità, un nuovo modello per conoscere la realtà – e abitarla. Nella sua prospettiva, la realtà naturale fa parte di un unico sistema: per conoscerla occorre comprendere il gioco dinamico dei rapporti fra tutte le cose e gli esseri. La tradizione agroecologica comincia all’interno dell’uomo e della donna, intesi come persona umana che cura il proprio rapporto con la vita, con la terra ecc. Questo approccio ricade poi anche sui processi produttivi ma, di per sé, non è solo un processo produttivo. Lo vediamo quando un contadino o una contadina non mette più veleno nelle sue coltivazioni perché si preoccupa della salute degli altri e perché vogliono mangiare gli alimenti prodotti da loro stessi.

Insomma l’agroecologia è una cosmovisione, che del mondo abbraccia ogni componente. E che può “arricchire” le popolazioni dal punto di vista non solo materiale ma anche spirituale.

 

(*) Docente brasiliano di Scienze agricole