
Nel cuore delle montagne guatemalteche, tra l’odore delle tortillas appena preparate, sentieri sacri e comunità attraversate dalla memoria e dalle ferite del conflitto armato, la cosmovisione maya continua a pulsare come una forza viva. Non è un insieme di credenze chiuse nel passato, né un concetto statico: è una lente con cui leggere il presente, una forma di relazione, un sistema complesso che intreccia natura, spiritualità, terra, corpo, memoria e identità.
Lo testimoniano le parole di chi ha scelto di custodire e trasmettere questa visione del mondo, a partire da esperienze personali e collettive. Iris, donna Ixil, madre, figlia, attivista e accompagnatrice di processi comunitari, ci guida dentro questo universo. «Sono donna, madre, figlia. E nomino sempre il mio essere figlia, perché implica una responsabilità: quella di ricordare, raccogliere, custodire». Per Iris, la cosmovisione non è una teoria. È una maniera di essere al mondo, di percepirlo, abbracciarlo e onorarlo. «Non si tratta solo dell’essere umano, ma dell’essere terra, dell’essere acqua, dell’essere aria. Anche la pietra ha vita. Anche il colibrì. Tutto è parte. Tutto ha energia. Tutto è sacro». È un sapere incarnato, tramandato dalle nonne e dagli anziani, in silenzio o nei piccoli gesti quotidiani.
Nei suoi racconti, emergono questi gesti semplici e potenti che ci ricordano che la spiritualità
non si separa dalla vita quotidiana: accendere il fuoco ogni mattina per ringraziare il giorno, ringraziare gli antenati prima di mangiare, osservare il cielo per leggere il tempo, ascoltare la luna, portare una candela nella propria casa. Il fuoco, soprattutto, è centro e respiro: «Il primo gesto delle nostre madri, appena sveglie, era accendere il fuoco. Chiedere: che giorno è oggi? Qual è la sua energia? E aprire lo spazio con gratitudine».

Checha, uomo ladino nato e cresciuto a Nebaj, porta un’altra esperienza, seppur complementare. Cresciuto tra decine di cuginə, campi coltivati e montagne percorse a piedi, racconta un’infanzia collettiva fatta di gioco, cammino e connessione. «A dieci anni conoscevo già tutte le montagne. Camminavamo, giocavamo, costruivamo da solə le nostre fionde. Era una scuola di vita». Oggi lavora nella panetteria di famiglia e porta avanti insieme alla sua compagna di vita Cat progetti di educazione ambientale per bambini e bambine della comunità, per cercare di trasmettere anche a loro il modo di vivere che si è radicato in lui a partire dall’infanzia. Parla della propria identità come di un intreccio: «Qui siamo tuttə un miscuglio. Alcunə hanno potuto riconoscere le proprie radici, altrə no. Ma il legame
con la terra lo portiamo dentro, tuttə».
Per Checha, la cosmovisione passa anche attraverso la relazione con il paesaggio: con gli alberi, con l’acqua, con gli animali. E si manifesta nella cura reciproca, nella convivialità, nella consapevolezza che ogni cosa è interconnessa. «Essere parte di un territorio significa rispettarlo. E rispettare anche chi lo abita, chi lo ha abitato prima di noi». Checha ci parla soprattutto dell’ascolto del territorio, come pratica culturale e politica. In un mondo che tende alla semplificazione e all’omologazione, riportare al centro il legame con la natura è, anche per lui, una forma di resistenza.
Entrambə dunque, in modi differenti, parlano apertamente di resistenza lenta, quotidiana, fatta di gesti, memoria, cura. «La spiritualità maya è stata vista come brujería, come qualcosa di oscuro, da nascondere. Ma non è così», racconta Iris, e ci spiega come, per sopravvivere, la cosmovisione abbia dovuto adattarsi, confondersi, nascondersi. «Il sincretismo non è una contaminazione. Non è confusione. È stata una strategia. È lotta. È continuitá. Per non farci uccidere. Per poter continuare a praticare, i nostri antenati inserivano il Padre Nostro nelle cerimonie. Così siamo sopravvissutə alla violenza coloniale e religiosa».
Recitare il Padre Nostro in una cerimonia maya era, ed è, un modo per proteggere e custodire ciò che è proprio, dentro un mondo che nega e reprime. In questa prospettiva, la colonizzazione non è solo una questione del passato: è un processo continuo, che ha colpito corpi, menti e territori. «Abbiamo vissuto una colonizzazione di pensiero», dice. «Ci è stato insegnato che la pietra non ha vita, ma per noi ha energia. Anche il fuoco, il fiume, la luna, tutto è vivo». E se la guerra ha lasciato una ferita aperta – “un trauma intergenerazionale” – oggi molte persone stanno cercando di sanare, di ricordare, di riconnettersi.

E se oggi sempre più persone giovani si avvicinano al calendario maya, alle energie dei giorni, alla numerologia, se esiste questo movimento di riscatto contemporaneo, è anche grazie alla lotta silenziosa delle donne. Iris ci racconta che erano donne coraggiose quelle che hanno tenuto viva la fiamma, spesso nel silenzio delle case, accendendo candele, bruciando incenso, tenendo viva la parola. «Le guide spirituali non sono sempre state uomini. Le donne c’erano. Solo che non potevano farsi vedere. Dovevano nascondersi, proteggersi. Oggi, finalmente, alcune si stanno facendo conoscere. Ma è una conquista recente, ancora fragile». Checha ci parla di donne come Ana Láinez o Marta di Tzumal, che hanno rotto il silenzio e hanno avuto la forza di guidare cerimonie, affermando la loro voce in un contesto
spesso ancora patriarcale.
Essere donna Ixil oggi, per Iris, è anche questo: affermare la propria voce in un sistema patriarcale e coloniale che continua a marginalizzare. «Non tutte possono. Tante diventano madri giovanissime, senza poter scegliere. Viviamo in povertà. Ma io sento il privilegio di aver avviato un processo di guarigione. E sento la responsabilità di condividerlo». Enry, guida spirituale di Nebaj, aggiunge una dimensione mistica e simbolica a questo tessuto di voci. Non si definisce maestro né saggio. «Non sono nessuno. Solo un
intermediario tra le persone e il tempo. Solo una voce che, a volte, può aiutare». Parla dei cinque giorni sacri che segnano il passaggio tra un anno e l’altro secondo il calendario maya, come di un tempo senza autorità, in cui il mondo è sospeso. «Durante quei giorni, non c’è governo. È il caos e l’ordine allo stesso tempo. Si apre un portale, e attraverso il fuoco, l’acqua, la terra e l’aria, parliamo con il tempo. È lì che le nostre parole acquistano potere».
Enry sottolinea il significato profondo del fuoco cerimoniale: non come simbolo, ma come
essere vivo. «Il fuoco ascolta. Trasmette. Porta la voce dell’offerta e della domanda. E ogni
giorno, nel calendario, ha una sua energia, un suo spirito, un suo compito. Alcuni giorni parlano di guarigione, altri di giustizia, altri ancora di creatività». «Essere guida spirituale non è un titolo da portare con orgoglio, è un cammino che passa attraverso il dolore», racconta. Enry parla spesso dei sogni: strumenti di visione, ma anche segnali che arrivano quando si è pronti. «A volte il tempo ci parla attraverso il sogno. Ma non basta sognare. Serve disciplina, serve ascolto. E serve sapere quando stare in silenzio».
Sottolinea anche la differenza tra chi cerca questo ruolo per prestigio e chi lo vive come servizio: «Ci sono persone che si avvicinano alla cosmovisione per moda. Ma il fuoco vede. Il fuoco conosce. Se non vieni con il cuore sincero, il fuoco non risponde. Ti rifiuta». Per Enry, essere guida non significa comandare, ma camminare insieme, proteggere, accompagnare. «Io non sono un maestro. Il maestro è il tempo. Il maestro è la natura. Noi siamo solo il ponte». In un mondo in cui la cosmovisione rischia di diventare una moda o una formula esotica, Enry invita alla profondità. «Oggi ci sono persone giovani che vogliono diventare guide solo per apparire. Ma la guida vera nasce, non si improvvisa. Si forma nel tempo, attraverso il dolore, i sogni, la disciplina». E poi, con un sorriso stanco ma pieno di convinzione, conclude: «Che continui la vita nello stile Ixil. Che la gente ami quello che è. Che rispetti il tempo, e la
terra, e se stessa».
La cosmovisione maya, in fondo, non è solo una pratica spirituale, ma anche politica,
ecologica, comunitaria. In queste voci troviamo una lezione antica e urgente: che camminare può essere preghiera, che accendere un fuoco può diventare un atto politico, che custodire la memoria può essere una forma di cura del presente. La cosmovisione diventa così un manifesto silenzioso, un invito a vivere ascoltando, a riconoscere l’energia in ogni essere, a camminare con rispetto. Come ci ha insegnato Isa, la nostra mamma guatemalteca, prima di entrare nella montagna: “chiedile il permesso”.
E in un tempo che corre veloce, dove tutto sembra consumarsi, queste parole sono una tregua, una carezza, un richiamo gentile a ricordare che un altro modo di abitare il mondo è possibile. Forse è proprio qui che la resistenza prende forma: nel semplice, potente atto di riconoscere che siamo parte di qualcosa di più grande, in un mondo che ogni giorno ci spinge a dimenticarlo.
Carlotta Moretti e Francesca Campioli – Servizio Civile 2024/25 a Nebaj