Il Senegal ai tempi del Covid-19
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di Carlotta Fiorino, Coordinatrice CISV progetto PAISIM 

Alla fine Covid-19 è arrivato anche in Senegal: era il 2 marzo quando un signore francese residente a Dakar, appena arrivato nel Paese, è stato trovato positivo al virus. Inevitabile e prevedibile, dicono tutt’ora in molti, preoccupati della carica potenzialmente pericolosissima e devastante che questo virus potrebbe avere in Senegal. 

Da quel 2 marzo, in cui molti dicevano «c’est parti» (è partito), sono stati registrati a oggi 36 casi di cui 29 ancora in trattamento. Certo la speranza che fosse già tutto finito non è mancata quell’8 marzo in cui il Ministero della Salute, nel suo comunicato ufficiale, titolava a grandi lettere: NESSUN CASO REGISTRATO.

Il Presidente Macky Sall non ha ovviamente fatto tardare la risposta dello Stato: blocco totale delle manifestazioni pubbliche, chiusura dell’aeroporto e dei confini marittimi, chiusura di scuole e università, sospensione dei pellegrinaggi religiosi, ospedali mobili da campo dislocati dall’esercito e informazione della popolazione sulle disposizioni sanitarie di base per evitare la contaminazione (lavarsi spesso le mani e utilizzare soluzioni antibatteriche, portare le mascherine, gettare i fazzoletti dopo l’uso, ecc.). 

Una risposta forte per un Paese che lo è altrettanto, “les lions du Sénégal” (i leoni del Senegal), grazie anche a un sistema sanitario strutturato e al mirabile lavoro dell’Istituto Pasteur di Dakar, attualmente alla ribalta per aver dato vita a un test diagnostico rapido per il virus.  

CISV in Senegal ha ovviamente aderito alle disposizioni statali, chiedendo in aggiunta al personale in loco di lavorare in smart working per garantire la salute di tutti: personale locale, partner di progetto e beneficiari. La richiesta è stata di mantenere le sole attività progettuali che possano garantire la completa sicurezza di tutti. 

Questo perché ci è premuto fin da subito mantenere e salvaguardare quel senso di comunità che contraddistingue l’opera di CISV in Italia come nei Paesi in cui operiamo: una responsabilità sociale da preservare, consapevoli che il personale in loco, i partner e i beneficiari fanno parte di una stessa grande famiglia umana legata e da sempre interdipendente. 

L’angoscia e la negatività per questo terribile momento è stata quindi ripensata in ottica di unione e di comprensione reciproca, perché sappiamo che – quando tutto questo sarà finito – quello che ci resterà davvero sarà un concreto senso di unione comunitaria.  

– Foto di Pietro Luzzati

 

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