«Tutti i senegalesi, gambiani, mauritani ecc. che sono su questo pullman e che vogliono partire da Agadez verso il deserto: sappiate che non lasciano più passare nessuno, quindi lasciate perdere», così urla in bambara l’autista dell’autobus in viaggio da Bamako a Niamey appena prima di lasciare la stazione di Segou. A chiedergli di tradurre in francese è il mio vicino, un giovane con marcato accento senegalese.
Poco dopo attira la mia attenzione la sua data di nascita sul passaporto, aperto per mostrarlo al militare salito a uno dei posti di controllo sulla strada: il 22 marzo, come me, ma di due anni prima. Glielo dico e cominciamo a chiacchierare dei nostri passaporti, simili. Mi domanda se ho tanti timbri sulle mie pagine e glieli mostro; curiosa domanda da fare, ma è la stessa curiosità che ho sempre anch’io verso i passaporti
degli altri. Lui ne ha pochi, ha appena rifatto il documento perché il precedente è scaduto nell’attesa di un visto per l’Europa, nonostante tutte le richieste fatte. È fiero del suo passaporto Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, ndr), è libero di muoversi ovunque nei paesi dell’Africa dell’Ovest, devono solo mettere il timbro. Gli domando dove sta andando. «A Niamey», mi risponde. «Sei uno di quei senegalesi di cui parlava prima l’autista?», «Sì, sto andando ad Agadez e poi Libia, Tunisia, Europa, attraverso il vostro mare, come si chiama già? È pericoloso il vostro mare». Gli dico di sì, è pericoloso, e anche il deserto, tutta la strada per arrivare da Agadez all’Europa è pericolosa, e se magari riesci ad arrivare sano e salvo, rischi di essere rinchiuso in un centro qualche tempo e poi rispedito a casa. «Ma se riesci a entrare, poi lì hai un sacco di amici che ti possono aiutare finché non trovi un lavoro», dice fiducioso.
Interviene anche il vicino dall’altro lato, cercando di dissuaderlo dal suo pericoloso progetto; è un tuareg maliano di Gao, ne ha vista tanta di gente partire e a volte non tornare più. «Non pensi alla tua famiglia?» gli domanda; il senegalese ci ha appena detto, infatti, che ha moglie e tre figli. «Non voglio stare seduto a guardarli senza fare niente per cambiare qualcosa. Mio padre ha passato la sua vita a soffrire, io ho sofferto per guadagnarmi da vivere e lo farò tutta la vita, non voglio che i miei figli debbano fare altrettanto».
«Ma puoi fare molte altre cose, ci sono molti senegalesi ricchi che non sono mai partiti per l’Europa».
«È il mio destino, non posso cambiarlo».
«Il destino ce lo costruiamo noi, puoi cercare lavoro in un altro di questi paesi vicini, saresti meno lontano dalla famiglia».
«Io voglio vedere altro, altri paesi, voglio capire, scoprire».
Spiegazioni diverse, contraddittorie anche, ma dette con tale determinazione che capisci che ognuna di queste, probabilmente, è un po’ la ragione che lo spinge a partire. Non ha paura di morire, la vita non esiste senza la morte, se deve arrivare, arriverà. Rimane fermo nella sua idea. «Non scoraggiatemi», dice. «Potete pregare per me o non farlo, ma non scoraggiatemi».
La strada continua, arriviamo alla frontiera maliana, per lasciarlo passare i gendarmi gli chiedono illegalmente 1.000 Franchi cfa, come alla maggior parte degli altri passeggeri. Altro posto di blocco maliano, anche la polizia chiede 1.000 Franchi cfa per lasciarlo passare e mettergli il timbro. Guarda un po’ scoraggiato il suo passaporto Cedeao, con cui dovrebbe girare liberamente tra gli Stati dell’Africa dell’Ovest, ma lo scoraggiamento non dura più di un attimo. «Va bene, sono solo 1.000, alla frontiera tra Mauritania e Mali me ne hanno fatti pagare 5.000 da ognuna delle due parti». Primo posto di blocco alla
frontiera burkinabé, altri 1.000: «Se non hai i soldi, in Africa non puoi viaggiare. Da voi è tutto diverso».
Lavorando in Mauritania per qualche tempo ha messo da parte un po’ di soldi per questo viaggio e per lasciare qualcosa alla famiglia. «Per 3 mesi non dovranno chiedere niente a nessuno». Rabbrividisco al pensiero di quanto 3 mesi non siano nulla, rispetto al tempo che rischia di durare il calvario che sta per affrontare.
Scendo a Ouagadougou, lui continua il viaggio su Niamey: «Quando sarò in Italia ti chiamerò», gli lascio il mio numero italiano. «Chiamami il giorno di Natale» gli dico, sapendo che quel giorno mi troverà sicuramente in Italia. «Chiamami il giorno di Natale e dimmi dove sei». Non credo che chiamerà mai, semplicemente perché non si ricorderà di farlo. Ma spero che chiami, semplicemente per sapere che sta bene, dopo aver raggiunto l’Italia o dopo aver desistito ed essere tornato a casa sua.
di Anna Calavita