Un abbraccio di resistenza
Attivo

di Giulia Caramaschi e Costanza Belli, già Corpi Civili di Pace in Colombia

La mattina del 4 agosto 2019, quando siamo atterrate all’aeroporto di Cali, meta utile per raggiungere Toribìo con un viaggio di circa due ore e mezzo in auto, ad attenderci c’era il primo indigeno Nasa che abbiamo conosciuto, e l’ultimo a cui abbiamo stretto la mano prima del rientro in Italia.

Durante questo primo incontro, dopo averci chiesto per quanto ci saremmo fermate con loro, stampando il suo sorriso contagioso nello specchietto retrovisore, disse: “Vedrete che, quando arriverà il momento di andare via e sarò io ad accompagnarvi, mi direte piangendo che vorreste restare”. In quell’istante, prese un po’ dall’ansia e un po’ dall’entusiasmo per l’inizio di questa esperienza, non potevamo sapere che, qualche mese dopo, ritrovando il suo stesso sorriso contagioso che osservava le nostre lacrime dallo specchietto retrovisore, avremmo scoperto che aveva perfettamente ragione.

Non sapremmo descrivere lo sgomento provato alla notizia del rimpatrio per l’emergenza sanitaria. Ripensando a tutte le difficoltà e agli imprevisti lavorativi affrontati per essere lì, ci siamo dette “evidentemente non era destino”. Il passaggio dal nostro “isolamento volontario” tra le montagne di Toribìo con i Nasa, limitate negli spostamenti e nelle attività da un protocollo di sicurezza molto rigido, a un “isolamento forzato” a casa, in Italia, per ragioni diverse ma ugualmente gravi, è stato difficile da digerire.

Siamo riuscite a vivere e lavorare per quasi 7 mesi in un luogo dove si aggiungono ogni giorno nuovi morti al numero già alto di persone uccise per colpa di una guerra che non smette di mietere vittime. Poi, in Italia scoppia la crisi del Covid-19, e nel giro di qualche settimana veniamo rimpatriate. Ci è sembrato tutto così assurdo da renderlo quasi buffo, ma una volta superato lo choc iniziale ha stimolato in noi varie riflessioni.

La crisi che stiamo vivendo accende i riflettori di tutto il mondo sugli effetti di processi già in atto da tempo e che hanno generato indisturbati questa catastrofe. 

Benché la globalizzazione e il sistema capitalistico incombano con forza sulle loro comunità e sul loro territorio ancestrale, il pensiero millenario dei Nasa si sforza di esistere, coesistere, resistere e rimanere attuale. Questo pensiero riposa nel cuore degli anziani e dei saggi, degli insegnanti e dei facilitatori che traducono quotidianamente nella didattica e nella pedagogia il loro essere e sapere indigeni.

Un sapere che parla di famiglie impegnate a rafforzare i propri principi e valori a partire dal tul, e che continua a farsi strada nelle menti delle nuove generazioni. Il Tul è allo stesso tempo un sistema di produzione agro-ecologica e un modello di vita legato alla cosmo-visione del popolo Nasa.

Il concetto include sia il sistema di produzione sia quello sociale, definendo il terreno intorno alla casa in cui si coltivano piante medicinali, ortaggi, frutti e si allevano animali secondo i principi di autosufficienza, equilibrio produttivo-ecologico e comunitario, con una componente sociale di cooperazione tra tul dedicato al commercio equo e il mutuo aiuto tra famiglie. Concepito come un “organismo vivo”, richiede pratiche tanto fisiche quanto spirituali per il suo buon funzionamento [Fonte CECIDIC, “Pensamiento y sabiduria desde el tul nasa”].

Nel linguaggio del popolo Nasa il virus viene categorizzato come “disarmonia”: cioè qualcosa che rompe un equilibrio fatto di opposti complementari, turbando un ordine che permette la coesistenza tra ogni essere umano e gli altri, e tra ogni essere umano e il resto dell’universo.

La dicotomia armonia-disarmonia contiene in sé quelle di pace-guerra, salute-malattia in quanto disarmonia è il conflitto armato, ma anche lo sfruttamento della Madre Terra da parte delle multinazionali; è la malattia non solo del corpo, ma del sentimento, loüus cxika (el corazon engorgojado, il cuore ammalato di parassiti), il distacco dal nostro “io” profondo, dal nostro legame con la terra e gli esseri che la abitano, dalla nostra spiritualità, che ci rende consumisti, individualisti, predatori verso l’ambiente e gli altri. L’üus cxika è la piaga diffusa dal sistema economico, politico, sociale in cui siamo globalmente immersi e che il virus sembra aver portato alla luce con tutte le sue contraddizioni e criticità. 

Per i Nasa e altri popoli ancestrali, l’armonia si ha con il riconoscimento dell’interconnessione di ogni essere – animale, umano, vegetale, minerale – con gli altri, in cui ogni vita dipende da tutte le altre. La Terra è una “grande casa” in cui coesistono tutti gli esseri viventi come nasawe’sx (comunità, famiglia). Non patrie con frontiere da chiudere e difendere.

L’unica forma intelligente di agire per raggiungere un obiettivo implica la cooperazione, fondamento del concetto di minga, comune a molti popoli andini, il cui significato semplice è “fare qualcosa insieme”, ma può spaziare da pensare soluzioni socio-politiche a lavorare in una piantagione di caffè, tutto per il bene comune e senza niente in cambio.

Di fronte all’emergenza coronavirus, il popolo Nasa ha indetto una minga hacia dentro (minga verso l’interno, cioè non insieme fisicamente, ma uniti per lo stesso obiettivo) fondata non sull’obbedienza a decisioni prese dall’alto, ma sulla presa di responsabilità solidale rispetto ai sacrifici necessari per la difesa della vita. Non obbedienza ma resistenza, quella che i Nasa portano avanti da secoli per difendere il proprio territorio, la propria cultura, i propri diritti e il proprio modo di vivere.

Perciò dibattono e dialogano in maniera critica per fronteggiare l’emergenza, tenendo conto delle necessità di tutti, il che li spinge non ad asserragliarsi in casa o nei supermercati per accaparrarsi il più possibile, ma piuttosto nel tul a impegnarsi nella produzione di alimenti sia per la propria famiglia sia per il baratto con gli altri, perché nessuno resti indietro. 

La loro resistenza è opporsi e trasformare un sistema che, fino a oggi, si è travestito da “normalità” per poter risultare come l’unico possibile, e che ora rivela di radicarsi nelle disuguaglianze. Non siamo “tutti sulla stessa barca”: è più vero che “siamo tutti nella stessa casa” e che, di conseguenza, tutti condividiamo l’onere di ripensare la normalità, di immaginare una vita nella Yat Wala basata sulla cura reciproca e una resistenza che contenga tante diverse resistenze. 

I Nasa ci insegnano che quel modo “altro” di conoscere e comprendere un territorio e il suo sviluppo si può ritrovare nelle pratiche culturali e di cura in relazione agli spiriti e ai tempi di vita e di morte della natura, guardando al dare-ricevere come a un processo di mantenimento dell’equilibrio, alla base del “buen vivir”: il vivere in armonia con gli altri e la natura con l’obiettivo della crescita spirituale e l’unione della comunità, contrapposto a un concetto di sviluppo che implica lo sfruttamento di persone e risorse naturali, la distruzione di culture e territori.

Oggi i popoli ancestrali ci mostrano, per l’ennesima volta, che per conoscere la direzione giusta da seguire occorre tenere sempre presente l’origine del cammino che si sta percorrendo. Secondo la cosmo-visione Nasa, per camminare domani, è necessario riflettere oggi sul nostro passato, la nostra esperienza, le nostre radici. Non stiamo camminando in avanti, al contrario stiamo tutti camminando dietro a coloro che sono stati prima di noi, gli anziani, e che ci guidano come noi guideremo coloro che ci seguono. 

Esiste uno sguardo corretto, uno sguardo “originario”, che alcuni popoli ancora conservano sul mondo, da cui si potrebbe imparare molto. Allo stesso tempo però esiste anche uno sguardo esterno che ci è stato imposto: quello del sospetto, del colore politico, del prevalere sull’altro, del possedere più del necessario

È giunto un momento storico in cui il sapere ancestrale delle popolazioni native inizia a emergere fortemente come un’altra realtà possibile, come un altro tipo di conoscenza valida e ulteriormente convalidata dal fatto che le risposte universali offerte dalla scienza esatta e positivista non risolvono le condizioni particolari di un territorio o di una comunità. Si tratta di riconoscere l’esistenza di piccoli mondi che si sono uniti per coesistere, come Natura e Essere Umano.

Soltanto entrando a far parte strutturalmente del nostro pensiero queste prospettive “altre” possono essere scomposte e adattate al mondo moderno, affinché sopravvivere in questo mondo, invece di viverci/viverlo, non diventi presto per tutti la nuova normalità.  

 

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