(A cura della Redazione)
A distanza di un anno dall’impugnazione della storica sentenza che condannava Efraín Rios Montt e Rodriguez Sánchez per genocidio e lesa umanità, il Paese attende ancora che si faccia chiarezza. Nel frattempo quanti in Guatemala lottano per il rispetto dei diritti umani continuano a subire violenze e soprusi.
Un anno fa si è svolto in Guatemala un processo storico: quello contro l’ex generale e capo di Stato José Efraín Ríos Montt e contro l’ex generale a capo della intelligence militare durante i primi anni ’80, José Mauricio Rodriguez Sánchez, per le terribili violenze commesse contro le popolazioni maya durante il conflitto armato interno che ha scosso il Paese per 36 anni.
Come ricorda un giovane Maya Ixil che abbiamo incontrato in Italia nei giorni scorsi, il conflitto armato guatemalteco e la guerra sucia (sporca, ndr) che l’ha caratterizzato sono stati tra i più sanguinosi del continente americano, con circa 200.000 morti – principalmente di origine Maya – e più di 1.500.000 rifugiati. Secondo la Comisión de Esclarecimiento Histórico promossa dalle Nazioni Unite negli anni ’90, dopo la firma degli Accordi di pace nel Paese, il 93% delle atrocità perpetrate furono responsabilità dell’esercito, gruppi paramilitari e altre forze armate dello Stato.
Tuttavia negli anni successivi alla firma della Pace (1996), malgrado gli sforzi delle organizzazioni che riuniscono le vittime civili del conflitto armato interno, il sistema di giustizia guatemalteco fu sordo alle denunce di violazioni dei diritti umani presentate, tant’è che le vittime, accompagnate dalla premio Nobel per la pace Rigoberta Menchú Tum, furono costrette a rivolgersi ai tribunali spagnoli, dove vigeva il principio di giurisdizione internazionale per i crimini di lesa umanità e genocidio.
A partire dal 2010 però qualcosa cambiò: fu nominata Procuratrice Generale della Repubblica Claudia Paz y Paz, avvocata guatemalteca che avviò un processo di ristrutturazione all’interno del Ministerio Público (la Procura guatemalteca) cercando di porre freno alla persistente corruzione che lo caratterizzava e che portò Philip Alston, Relatore Onu per le esecuzioni extragiudiziarie, a dichiarare che “Il Guatemala è un buon Paese per commettere un omicidio”, dati gli altissimi indici di impunità. Peraltro, nei mesi scorsi è stato presentato – e accolto – un ricorso per anticipare la chiusura del mandato di Claudia Paz y Paz al mese di maggio (in teoria doveva finire a dicembre).
In ogni caso, grazie ai cambiamenti promossi all’interno della Procura, le denunce presentate negli anni ’90 dalle organizzazioni di vittime del conflitto armato interno furono riprese in mano e diventarono oggetto di indagini, tant’è che in poco più di due anni il fascicolo passò dalle 40 pagine iniziali a più di 800, contenenti testimonianze, perizie, piani militari. Tutto il materiale raccolto permise l’avvio del processo, a marzo 2013, contro Efraín Rios Montt e Rodriguez Sánchez per i crimini di genocidio e di lesa umanità: da Paese con il tasso di impunità più alto a livello mondiale, il Guatemala passò a essere riconosciuto come il primo Stato in cui un tribunale nazionale giudicava un ex capo di Stato per genocidio.
Tra le imputazioni a carico degli accusati: lo sterminio di almeno 1.771 persone del popolo Maya Ixil; l’aver costretto migliaia di Ixil a rifugiarsi sulle montagne, dove per anni sono sopravvissuti in condizioni di vita spaventose; altri crimini di genocidio e di lesa umanità contro la popolazione Maya Ixil, concentratisi nella loro brutalità nel 1982 e 1983. Questa strategia – definita di tierra arrasada (terra bruciata) per annichilire qualsiasi sostegno popolare alla guerriglia – rispondeva ai Piani militari Victoria e Sofia, pensati e implementati dall’esercito allora comandato dall’ex generale e capo di Stato Ríos Montt. La scelta di concentrare il caso sulle violenze commesse contro il popolo Maya Ixil dipese da due elementi principali: si trattava del caso più documentato (furono infatti trovati i documenti militari che pianificavano la repressione della popolazione civile); inoltre concentrarsi su un’area geografica e una popolazione specifica poteva facilitare l’individuazione degli elementi costitutivi del crimine di genocidio.
La strategia dell’accusa era dimostrare, attraverso il processo, che nell’ambito del conflitto armato interno vi fu genocidio, e poter poi con questo precedente aprire nuovi processi contro altri responsabili di violazioni dei diritti umani.
Il 10 maggio del 2013 il Tribunale presieduto dalla Giudice Yazmin Barrios condannò Efrain Rios Montt per genocidio e crimini contro l’umanità,e successivamente stabilì le misure riparatrici per le vittime, tutte di natura simbolica, come richiesto dalla stessa popolazione sopravvissuta. Tra queste, si prevedevano le scuse pubbliche del Governo per il genocidio commesso e l’inserimento nei testi scolastici di questo fondamentale pezzo di storia. In un Paese profondamente razzista, in cui fino a pochissimo tempo fa era pericoloso perfino dire ad alta voce la parola “genocidio”, e ancor più associarla ai militari coinvolti nelle violenze (tra cui lo stesso attuale Presidente della Repubblica guatemalteca, responsabile dell’area ixil durante i primi anni ’80), questa sentenza rappresentò un cambiamento storico. Per la prima volta si ascoltava la voce delle popolazioni originarie Maya, nello specifico di quella Ixil, e la loro memoria collettiva entrava a tutti gli effetti a far parte della storia ufficiale del Guatemala.
All’indomani della sentenza però il CACIF (l’organo che rappresenta l’oligarchia economica guatemalteca) ne condannò pubblicamente la legittimità e il contenuto; alcuni giorni dopo la Corte Costituzionale guatemalteca annullò per vizi procedurali tutto lo svolgimento del processo dal 19 aprile in avanti, inclusa la sentenza di condanna dell’ex generale. La legittimità di tale decisione è ancora adesso oggetto di analisi, giacché (come segnalato da due giudici della stessa Corte Costituzionale che non approvarono la risoluzione) essa eccede le competenze della Corte stessa. Ma intanto il messaggio per la popolazione guatemalteca e in particolare per quella Maya è risultato piuttosto chiaro: la pace è ancora lontana, e nel Paese non c’è spazio per la verità storica, la giustizia e una effettiva tutela dei diritti umani.
Come ci ha raccontato il nostro amico Maya, tra la popolazione Ixil la frustrazione è stata tanta, ma soprattutto si è consolidata una sfiducia generalizzata verso lo Stato, che anche oggi continua a violare i diritti delle popolazioni originarie per imporre il proprio modello economico, favorendo l’ingresso di imprese transnazionali straniere a scapito del diritto delle popolazioni originarie a decidere sull’utilizzo dei propri beni naturali, sancito anche dalla Convenzione 169 dell’ILO.
La resistenza del popolo Ixil per il proprio diritto a esistere ed essere riconosciuto continua quindi e, come ha ricordato il nostro amico, è importante che si mantenga l’attenzione internazionale su questa parte del mondo, anche dopo l’annullamento della sentenza. Perché proprio a partire da essa le organizzazioni e le persone che lottano per il rispetto dei diritti umani in Guatemala sono esposte a maggior rischio di violenze e soprusi.