COLOMBIA, L’ALTRA FACCIA DELLO SVILUPPO

di Leonardo, volontario progetto Antenne di Pace – Caschi Bianchi

Manca poco più di un mese al termine del mio servizio civile, e ancora non sono riuscito a impugnare carta e penna per parlare di questa esperienza. Non è stato per mancanza di volontà e nemmeno di tempo, ma per la difficoltà di analizzare il contesto in cui mi trovo, e di riuscire a spiegarlo a chi non lo vive.
Prima di iniziare il servizio civile con CISV ero già partito con altre organizzazioni no profit, toccando i più disparati angoli del mondo: Tanzania, Romania, Corea del Sud. Ogni volta il primo impatto era forte, emotivamente devastante: ti catapultava improvvisamente in un mondo dove ti rendevi conto che le consuetudini con cui avevi sempre vissuto, e considerato universali, hanno in realtà ben poco valore.

Qui in Colombia, a Pasto, non è stato così. La città è pulita, l’integrazione fra etnie e culture è ottima, le strutture sanitarie sono complessivamente di buon livello. È una città piccola, ma dove riesci tranquillamente a trovare barattoli di Pesto italiano di marca a prezzi accessibili, per compensare la nostalgia di casa. Conoscere un italiano per i pastusi è abbastanza raro, ma non così incredibile e inaspettato, abbattere le differenze culturali è relativamente facile; in poco tempo ti trovi ad avere un gruppo di amici e creare una quotidianità non così diversa da quella di casa. Certo, nei pueblos dove lavoro, a pochi chilometri dalla città, la situazione è differente: il divario fra la zona urbana e quella rurale è enorme sotto ogni aspetto, tuttavia anche qui nessun impatto critico. Ogni campesino con cui la mia associazione collabora ha un piccolo appezzamento di terra coltivabile, un acquedotto potabile (anche se io ho il terrore di berci), e solo brevi periodi di siccità con cui convivere.

Perché sono qui allora? Perché un servizio civile in una città che sembra essersi avviata inesorabilmente verso lo sviluppo, dove il conflitto armato della guerriglia ha colpito, seppur con violenza, solo per poco tempo la zona?
La risposta credo si trovi nell’altra faccia dello sviluppo. È nella costruzione di centri commerciali che finiranno per prendere il posto delle tiendas e delle macellerie, nell’arrivo di una catena franchising di birre “artigianali” che potrebbe sostituire le bevande locali a base di chica e chapil fatto in casa, nei giovani che abbandonano i campi per un’alternativa che consiste in un lavoro mal pagato e precario, visto che nella stragrande maggioranza dei contratti (se stipulati) non c’è il preavviso di licenziamento.

La Colombia è rinomata per la sua meravigliosa diversità: ogni luogo è unico, ed è sufficiente spostarsi solo di qualche ora per ammirare un contesto completamente differente, tanto da pensare di essere in un’altra nazione. Spesso però ci si sofferma solamente sull’unicità di flora e fauna, tralasciando la cultura dei suoi abitanti. Una cultura immensa, incredibile, ma altrettanto fragile che lo sviluppo, sotto forma della globalizzazione che ha investito la nazione ormai da decenni, rischia di distruggere.

Le nuove leggi guardano a standard internazionali e non tengono conto delle caratteristiche uniche che può avere una comunità locale. Veredas (comunità rurali) che hanno costruito e gestito per generazioni il proprio acquedotto ora sono costrette a cederlo a enti privati per l’incapacità di rispettare i requisiti che le nuove normative impongono. Anche il mercato internazionale, attraverso grandi promesse, spinge verso il cambiamento.

Qualche tempo fa un contadino, saputo che ero europeo, mi ha chiesto elettrizzato se fosse vero che “un aguacate (avocado) si vende fino a 9 euro in Cina” aggiungendo che, da quanto gli hanno raccontato, “non basterebbe coltivarli in tutta Colombia per soddisfare la richiesta dei mercati”. Ammesso che la Cina paghi in euro, e che la domanda sia davvero così alta, il problema del dedicarsi esclusivamente alla monocoltura destinata alle esportazioni è un problema reale.
Cerco di spiegare che se si iniziasse a coltivare solo avocado, questo porterebbe nel lungo periodo a distruggere i nutrienti del terreno, senza contare che si sarebbe perennemente dipendenti da un unico prodotto il cui prezzo potrebbe crollare all’improvviso. Ma mentre lo spiego mi rendo conto di quanto questo concetto sia difficile da capire, di come possa sembrare insensato guardare al lungo periodo quando appare improvvisa la possibilità di moltiplicare esponenzialmente i propri guadagni in una maniera così semplice.

Ho notato che il cambiamento si manifesta anche nei più piccoli aspetti; la stessa lingua inizia a subire l’influenza internazionale. In Colombia si usa lo spagnolo, ma qui a Pasto il parlato è spesso arricchito da espressioni quechua che danno colore e vivacità al dialogo. Tra i giovani, però, lo slang dei gringos si sta inserendo nel linguaggio comune, probabilmente a discapito di un gergo periferico come il quechua.

Questo è il motivo per cui la mia associazione è qui, e perché io sono qui a cercare di dare un aiuto, per quanto modesto. Non sempre i nostri mezzi sono i più efficienti, quasi mai lavoriamo nel modo migliore, ma lo facciamo con una costanza febbrile e ininterrotta, che porta a lavorare quasi tutti i sabati e le domeniche.

L’obiettivo è trovare un compromesso, che spinga i giovani delle aree rurali a rimanere e coltivare con principi agro-ecologici, ad apprezzare le piante che crescono in questa regione e conoscerne le proprietà, ad amare gli animali che popolano la flora, a vivere in maniera completamente sostenibile con l’ambiente, a difendere le proprie radici pur senza dover rinunciare alla tecnologia, all’apprendimento della lingua inglese, a viaggiare e conoscere.

A volte, quando visitiamo alcuni predios (poderi), i campesinos esclamano in tono commosso che non si sarebbero mai aspettati che qualcuno venisse da così lontano solo per vedere la loro casa. Quasi non avessero idea della maniera incredibile in cui vivono, della loro unicità e di quanto sia importante preservare le loro tradizioni.

Nessun impatto critico qui a Pasto, è vero. Ma a volte bisogna imparare ad amare e difendere le piccole cose, prima che si perdano per sempre.