ITALIANI ALL’ESTERO: NON AVEVO CASA NE’ LAVORO, PERO’ AVEVO AMICI

di Alice Bianchi

Seduta al tavolino traballante di un bar, ho la presunzione di pensare che una manciata di parole possano, anche solo per poco tempo, regalare un briciolo di ottimismo e di speranza.

Sono arrivata a El Calafate (Patagonia argentina) tre mesi fa, avevo in mano un biglietto di sola andata, non conoscevo nessuno.

Dopo tre giorni avevo trovato un lavoro in un ostello e una stanzetta in affitto, nel garage. Non era un posto in cui si poteva stare oltre che a dormire, per cui passavo tutto il mio tempo libero vagando per le strade, mossa dalla curiosità, conoscendo gente. “Gente” la prima settimana, che si trasformò in conoscenti il primo mese, che si trasformarono in amici il secondo mese, e ben presto in ‘amici sui quali puoi contare’.

E così fu: passavo i pomeriggi bevendo mate (un infuso simile al tè, ndr), chiacchierando, conoscendo amici di amici, amici di conoscenti o amici di gente; e poi gente varia, di tutti i tipi e da tutto il mondo, con tutte le loro divertenti sfumature di diversità.

Quello che mi spingeva era, ed è, l’incredibile energia positiva che questo posto è capace di trasmettere. Quando mi domandano: perché sei venuta proprio qua? non so rispondere, e dico: perché me ne sono innamorata; mi interrogo, però, come i grandi amori che scoppiano all’improvviso, con una intensità che spaventa. Ora ho smesso di domandarmelo, semplicemente vivo l’attimo, senza perdermi nessun dettaglio.

“La Tana” mi chiamano, e così chiamano tutti gli italiani. Ma qui, a El Calafate, gli italiani (come la gente di tutto il mondo) sono solo di passaggio: si fanno ammaliare dal Perito Moreno, colosso di ghiaccio che ti conquista al primo sguardo, si fanno trasportare lungo sentieri di incredibili montagne, a volte si lamentano per il troppo vento e dopo tre giorni se ne tornano a casa con la macchina fotografica carica di immagini stupende.

Mi chiamano La Tana e lo fanno gridando, con uno speciale sorriso sul volto. E questo lo fanno un po’ per l’ammirazione con cui guardano gli italiani come custodi delle loro radici, ma non dipende totalmente dalla nazionalità. Penso che dipenda dal fatto che cerco sempre di mettere un po’ d’amore in tutto quello che faccio: dal lavare i piatti in un ristorante, fare una pizza con amici, abbracciare una persona sconosciuta e raccontargli chi sono, imparare un nuovo lavoro, condividere un mate, dando valore, attraverso un rituale, a ciò che per loro è così naturale e spontaneo, da cui invece noi dovremmo imparare un po’ di più: la condivisione, anche con chi è diverso e straniero.

Tutti mi hanno accolto senza chiedermi nulla in cambio. E quando, dopo tre mesi, mi sono trovata senza un lavoro e senza una casa, la cosa che più mi ha colpito è che non hanno mai smesso di credere in me: un lavoro lo trovi in un secondo, mi dicevano, per qualunque cosa puoi contare su di me, oppure: conosco quasi tutta la città, in due giorni ti trovo qualcosa. […]

Amici, amici di amici, ex colleghi, taxisti, camerieri, persone viste una volta o viste sempre: tutti erano pronti a darmi una mano, come fanno tra loro. In 5 giorni ho trovato una casa, ho un lavoro che adoro e un centinaio di amici in piú. E tutto questo perché se si usa l’amore come strumento ciò che ti torna indietro non può essere che uguale o maggiore a ciò che si è dato. E in momenti come questi ti rendi conto davvero che non sono i soldi o la sicurezza materiale che ti sorregge, ma i legami con le persone che ci stanno attorno.

Mi chiamano La Tana, e io sorrido di rimando, perché questo soprannome non me lo scrollo piú di dosso. Subito mi infastidiva essere etichettata come italiana. Adesso è diverso: l’Argentina è uno dei pochi Paesi in cui si può essere orgogliosi di essere italiani.

Gli italiani qui sono arrivati con niente, si sono rimboccati le maniche e hanno costruito tutto: lavoro, famiglia, una nuova vita. Chi mi incrocia mi parla di suo nonno, mi recita poesie in dialetto o mi canta canzoni popolari, spesso teniamo nella bocca il sapore dello stesso cibo, mischiato a ricordi d’infanzia così nitidamente somiglianti.

Abbiamo una cultura molto simile, anche se viviamo quasi agli antipodi; però a noi giovani italiani manca un parte che ammiro e mi affascina di questi ragazzi: la forza di rialzarsi da una crisi senza data di scadenza, e l’ottimismo di credere nei propri sogni e nelle proprie potenzialità. Mentre noi, questo ottimismo, lo stiamo perdendo.

Quando condivido questo mio pensiero con i miei amici argentini loro sorridono e mi dicono: siamo nati e cresciuti in un Paese in crisi, in queste condizioni un modo per rialzarti lo devo trovare per forza. Ma ciò che mi ha detto un giorno un’amica mi è rimasto scolpito: sai dove sta la differenza tra noi e voi? Voi siete figli di quelli che sono rimasti, per paura o per comodità, noi siamo figli di quelli che hanno lasciato tutto e sono partiti, e dal nulla si sono costruiti. Così capisco che ci sono due tipi di italiani, che sono poi due tipi di persone in generale: quelli che rimangono e quelli che partono.

Io sono di quelli che partono. Qualcuno pensa che sia paura o mancanza di responsabilità. Io invece credo di essere come tutti quei giovani convinti che, per cambiare il mondo, prima bisognerebbe cambiare se stessi. Viaggiare, sperimentarsi, conoscere, aprirsi alle differenze…