di Lorenza Fontana*
Dal 2012 il governo colombiano e la guerriglia organizzata del paese, le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (FARC), hanno intrapreso un dialogo per mettere fine a oltre mezzo secolo di violenze. Le radici della piú lunga guerra civile contemporanea dell’America Latina risalgono alle rivolte contadine degli anni ‘20 e alle richieste inascoltate di riforma agraria. Il periodo noto come “La Violencia”, tra gli anni ‘40 e ‘50, radicalizzò il confronto politico tra il partito conservatore e quello liberale, favorendo la creazione di gruppi paramilitari e guerriglieri.
Dopo la dichiarazione di amnistia del 1953 la maggior parte di questi gruppi si smobilitò, ma alcune fazioni di sinistra legate al partito comunista si riorganizzarono in risposta alla campagna repressiva appoggiata dagli Stati Uniti, e nel 1964 fondarono le FARC. Negli anni ‘80 il boom della coca mise a disposizione dei gruppi armati una notevole quantità di risorse e permise alle FARC un’espansione territoriale, inasprendo il conflitto. Da allora nessuno dei principali tentativi di dialogo (nel 1984 e nel 1999-2000) ha mai portato a un accordo.
Per fortuna, le ultime negoziazioni stanno raggiungendo obiettivi ben più ambiziosi rispetto ai tentativi precedenti, rendendo improbabile un brusco passo indietro. Inoltre, a fine 2014, le FARC hanno dichiarato un cessate il fuoco unilaterale mandando segnali incoraggianti per il processo di pace. Pur violato e revocato più volte, il cessate il fuoco ha migliorato in modo sostanziale le condizioni di sicurezza in molte regioni del Paese, e negli ultimi mesi la vita quotidiana in località fortemente colpite della violenza ha ritrovato un po’ di calma. Nel novembre 2015 ero in Colombia per condurre una ricerca su diritti etnici e dei contadini e conflitto sociale, con il sostegno della Royal Geographical Society Small Grant. Grazie alla maggior sicurezza ho potuto viaggiare nel Cauca, regione a sud-est del Paese, visitando alcune comunità indigene e contadine: le montagne abitate da queste comunità, sulla Cordigliera Occidentale, contese dall’esercito e dalla guerriglia, sono state a lungo una zona calda, strategica e violenta, del conflitto.
I negoziati
Sul tavolo dei negoziati dell’Avana-Cuba vi è un’agenda divisa in 6 punti, che include questioni come: la ridefinizione della politica agraria e delle coltivazioni a scopo illecito, la smobilitazione della guerriglia e la sua partecipazione nell’arena politica, l’identificazione delle vittime, le modalità di approvazione da parte della popolazione colombiana degli accordi, una volta conclusi (attraverso un referendum, come propone il governo, o un’assemblea costituzionale, come vorrebbero le FARC).
La resistenza dello Stato rispetto alla realizzazione di una riforma agraria fu una delle cause scatenanti del conflitto negli anni ‘50, e le proteste per una redistribuzione delle terre, una politica integrale di sviluppo rurale e il riconoscimento dell’autonomia delle comunità contadine restano al centro dell’agenda delle FARC. Malgrado l’iniziale impegno a firmare gli accordi entro il 23 Marzo 2016 non sia stato rispettato, le negoziazioni continuano. Ma più le parti si avvicinano a un accordo finale, piú difficile diventa creare condizioni concrete per la pace.
Che la firma degli accordi di pace sia solo uno degli elementi necessari a cambiare il futuro della Colombia, risulta chiaro parlando con i leader della comunità. Come mi ha detto un anziano del Municipio di Toribio (una fortezza della resistenza indigena di fronte a guerriglia ed esercito): «Ciò che stanno discutendo all’Avana riguarda il conflitto diretto tra attori armati. Ma ciò di cui noi abbiamo bisogno è una pace integrale e strutturale, fatta di giustizia sociale, educazione, salute e investimenti per le aree rurali. Altrimenti avremo una pace a metà». Altra fonte di preoccupazione per gli abitanti di una tra le regioni con più alta presenza di gruppi armati è che l’accordo potrebbe generarne una frammentazione e che alcune fazioni possano continuare a combattere. Nemmeno la reintegrazione degli ex combattenti sarà facile, con le comunità che per anni sono state una base di reclutamento per le FARC. Si creerà una situazione in cui vittime e carnefici si ritroveranno a convivere.
Le storie di violenza e di guerra riempono i discorsi della gente e la loro percezione del paesaggio. Mentre cammino, le persone mi indicano continuamente i luoghi in cui membri delle loro comunità sono stati uccisi, o in cui la guerriglia si accampava fino a pochi mesi prima. Per qualche ragione, che forse ha a che fare con film d’azione e letture stereotipate, avevo sempre immaginato i guerriglieri in foreste esotiche e lontane, nascosti dalla vegetazione e distanti dai centri abitati. Quel che ho scoperto è che alcune delle file piú attive delle FARC si erano stabilite e si spostavano tra colline densamente popolate e coltivate, accampandosi a pochi km dai centri abitati, comprando provviste nel negozio del centro e facendo azioni militari nell’affollata piazza del mercato il sabato mattina.
Coltivazioni illecite
Il quarto punto dell’agenda delle negoziazioni, che riguarda le coltivazioni a uso illecito, sarà cruciale per la regione. Campi verdi di coca e serre illuminate 24 ore al giorno e 7 giorni a settimana per la produzione di marihuana si riconoscono facilmente tra le montagne attorno a Toribio. Qui, a poche ore di auto da Cali, terza città della Colombia per grandezza, lo Stato è una presenza ebole. Pick-up pieni di piante raccolte da poco sono parcheggiati lungo la via principale, mentre nei centri abitati è forte l’odore di marihuana bruciata. Poco prima della mia visita il Congresso Colombiano ha votato una legge per la legalizzazione delle droghe leggere, che mi aspettavo fosse approvata dalla gente. Invece, secondo la percezione generale, la legalizzazione è solo un modo per trasferire i benefici economici alle grandi corporazioni e ai proprietari terrieri, mentre le comunità e i contadini perderanno una parte importante del reddito. Il sostegno alla legge sia del governo sia delle FARC rivela la loro incapacità di offrire soluzioni alternative alle comunità locali per cui le coltivazioni a uso illecito rappresentano una parte significativa del reddito.
Il mio viaggio è la dimostrazione che il processo di pace è riuscito a generare un periodo di calma e relativa sicurezza. Allo stesso tempo, però, è chiaro che una pace duratura dovrà fare i conti con le questioni complesse e lungamente irrisolte della povertà e dello sviluppo rurale, e che le comunitá locali dovranno intraprendere un lungo percorso per imparare a vivere di nuovo in pace dopo 50 anni di conflitto.
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Traduzione a cura di Chiara Beatrice Ghini
(*) ricercatrice associata della Facoltà di Scienze Sociali dell’OU. Per aggiornamenti sulle sue ultime ricerche cfr Twitter.