di Lorenza Strano, attuale Servizio Civile con CISV in Brasile
Vivo in un Paese enorme ma la mia realtà è piccola.
Vivo in mezzo a un mondo violento e disperato ma la mia realtà ha dolcezza e speranza.
Vivo a Crateús, un piccolo centro nel cuore deserto del Cearà, lo Stato più turbolento e vivace del Brasile. Ma qui il giorno è rumoroso e le domeniche tranquille. Il tramonto regala un sole inghiottito da distese di nuvole rosa, la sede della Caritas oggi riposa e io trovo finalmente un bar aperto dove sedermi a scrivere.
Il meritato riposo arriva dopo mesi di intenso lavoro, non ci si ferma mai. Un frenetico andirivieni di dipendenti che ruotano intorno ai tanti progetti.
Qui, nel nordest del Brasile, tra le comunità campesine da sempre in miseria, CISV lavora con i più poveri fra i poveri: i pescatori e le pescatrici d’acqua dolce, la cui sopravvivenza è minacciata da una siccità che perdura ormai da anni, facendo scomparire progressivamente i bacini di pesca.
Devo fermarmi per percepire lentamente questi 3 mesi di esperienza. Ripassare uno a uno i giorni dal mio arrivo. All’oceano di Fortaleza, una città confusa e maltrattata dove naufragano le speranze del popolo nord-estino, ho affidato tutte le frasi lasciate a metà, tutte le incertezze, le questioni irrisolte. All’arrivo a Crateús mi sento piccola, non conosco la lingua e dormo tra perfetti sconosciuti. I primi giorni passano lenti tra domande del tipo che faccio qui? Qual è il mio compito? Avrà senso questo momento quando mi guarderò indietro?
Sì che l’avrà, mi rispondo adesso. Tutte le domande sono state spazzate via da un singolo momento. Quello in cui ho preso in braccio la piccola figlia di una pescatrice che il progetto accompagna. I beneficiari non sono i soggetti di quel linguaggio “progettese” abusato ma necessario degli uffici, sono persone in carne e ossa con sogni e problemi irrisolti. Mi aprono la porta, mi offrono il caffè, mi ascoltano e mi raccontano di loro.
I nostri incontri sono speciali ma non hanno niente di miracoloso, solo la magia racchiusa nella nascita di un dialogo.
Non mi accorsi subito di quanto fossero precarie le loro situazioni, povere le loro case. Una dopo l’altra resero la scena ormai “normale”. La terra rossa e assetata, alberi stroncati dalla siccità, laghi prosciugati, gli sguardi bassi alle nostre domande. Come convincerli che il miracolo è l’azione politica? Che uniti possiamo dare vita alla novità, che siamo artefici del destino anche se Dio non manda la pioggia.
Quando mi resi conto di quella povertà e di quella resistenza, capii la fortuna di ritrovarmi lì in mezzo a loro, capii l’opportunità che il servizio civile mi aveva dato.
Un anno per andare piano, per decidere io il ritmo di una vita che mi vuole sempre più produttiva, più giovane ed efficiente. Mi prendo un anno per fare di questi incontri l’unica ragione, per anteporre la qualità alla quantità, la faticosa ricerca della politica con la ‘p’ maiuscola, in un mondo che ci vuole sempre più indifferenti.