SENEGAL: NELLA TRAPPOLA DELLA “SOLIDARIETA’”

di Stefania Calandra – CISV Louga

Ciao a tutti, sono Stefania, ho 23 anni – ancora per qualche giorno – e sto svolgendo un’esperienza di Servizio Volontario Europeo con CISV a Louga, nel nord del Senegal.

Ho studiato psico-pedagogia e comunicazione interculturale, sono stata due volte in Tanzania e ho fatto tanto volontariato nel settore dell’immigrazione in Italia: pensavo che tutto questo fosse abbastanza per guardare le cose da un altro punto di vista, invece ci sono situazioni in cui ti ritrovi in mezzo e ti spiazzano come se le vedessi per la prima volta.

E così mi ritrovo a parlare di ciò che non mi aspettavo: “cadere nella trappola”.

Pochi giorni dopo il nostro arrivo a Louga (in un gruppo composto da tre ragazze e due ragazzi), abbiamo partecipato alla cerimonia di lancio di un progetto CISV insieme al partner locale ASESCAW. Appena arrivati siamo passati dal banchetto di prevenzione contro l’ebola – con il gel per lavare le mani – e a ciascuno è stato fornito un cartellino bianco di riconoscimento, con scritto sopra il nome dell’ong. Qualche minuto dopo, la ragazza che ci aveva distribuito i tesserini è tornata da noi con degli altri color verde e ce li ha fatti sostituire, probabilmente per una questione legata alla distribuzione del cibo per il pranzo. La mattinata è andata un po’ per le lunghe, in seguito ci hanno fatto accomodare sotto il tendone delle autorità e noi cinque abbiamo avuto l’accortezza di sederci nell’ultima fila.

Mi sentivo spaesata, mi ha sempre un po’ infastidita questa accoglienza “solo perché bianchi”. Siamo appena arrivati in Senegal e c’entravamo ben poco con quel progetto e quella giornata, eppure eravamo seduti fra le persone più importanti. Finita la cerimonia ci hanno invitati a mangiare in una sala con molti tavoli a cui hanno preso posto le varie autorità. Due ragazze ci hanno portato un piatto di carne di montone condito, verdure, salsa di cipolle e frutta. Nella stanza accanto e in cortile tutte le altre persone mangiavano riso alla senegalese, tutti insieme da uno stesso grande piatto, alcune sedute per terra, altre sulle sedie. Abbiamo dato un’occhiata ai prodotti agricoli sulle bancarelle e un gruppetto di bambini talibé (alunni delle scuole coraniche, ndr) si è avvicinato a noi: con tutta quella gente riunita a mangiare poteva essere una buona occasione per rimediare del cibo. Valentina, una di noi SVE, ha dato a uno di loro la mela che aveva preso poco prima e così tutti gli altri bambini si sono avvicinati e si sarebbero azzuffati se un uomo non avesse urlato loro qualcosa in wolof, facendoli allontanare. Valentina è rimasta perplessa, noi le abbiamo suggerito di non dar loro più niente da mangiare se non ce n’era per tutti.

E poi “cadi” e li guardi, e ti perdi nel loro sguardo, in quegli occhi, e cadi.

Tu con la pancia piena e loro con i vestiti stracciati, loro con la faccia impolverata a chiedere cibo e noi trattati da vip. Lo sai, lo sapevo prima di partire, lo so.

So che tutto questo fa parte dell’Africa. Ma c’è un attimo, un istante soltanto in cui tutto si ferma e ti sembra senza senso e devi crearti subito un nuovo schema mentale, qualcosa che in Italia non si impara, qualcosa che non si legge nei libri di scuola, e li devi gestire quegli sguardi. E se qualcuno ti bussa alla porta chiedendo cibo o soldi o altro, che fai?

Se glielo dai, nel giro di poco tempo avrai tutto il mondo che ti bussa alla porta, se non glielo dai ti senti uno schifo. Ci rifletti su e parti dicendo a te stessa che non vuoi essere uno di quei bianchi che mantiene viva l’idea del bianco ricco che ha sempre qualcosa da regalare… ma poi Soda ti bussa alla porta un giorno e poi l’altro, e a un certo punto “cadi”. Compri le sue noccioline… e ritorna… non hai soldi e le dai un pezzo di pane o un’arancia… e ritorna… chiede materiale per la scuola, un computer, un telefono, forse senza nemmeno conoscere davvero il valore di questi oggetti, e le dai un libro e una penna… e ritorna… porta un’amica e chiede anche per lei, vuole 500 franchi CFA (moneta locale) per farsi le treccine per la festa e non se ne va mai a mani vuote… insiste. E capisci di essere caduta nella trappola, anche se non volevi, anche se lo sapevi, e allora inizi a cercare compromessi, pensi “la prossima volta che torna le compro le noccioline a 50 franchi CFA e niente di più”.

E i compromessi sono tanti: qualche giorno fa l’insegnante della scuola ci ha parlato di un bambino, il più sveglio della classe, vivace ma attento, risponde sempre. Ci racconta la sua storia e dice che non potrà più venire a scuola perché sua madre è malata e suo padre non riesce a pagargli la retta. Questa situazione ci sembrava ingiusta e siamo andati dal responsabile della struttura per chiedergli di chiudere un occhio e permettergli di continuare il percorso scolastico. Ci attendeva un discorso giustissimo con considerazioni che penso di avere già fatto mille volte in Africa (e non solo). Ci ha detto che la gente spende un sacco di soldi per fare matrimoni e feste varie, ma che se si tratta di pagare per la scuola non hanno voglia di farlo. Ci ha detto che non si può permettere a un bambino di venire a scuola senza pagare perché non è giusto nei confronti di chi invece lo fa. Tutte cose che ho imparato forse ancor prima di mettere piede in Africa per la prima volta eppure… far restare Pathe a scuola mi sembrava la soluzione più ovvia.

Durante una pausa in una mattina di lavoro in ufficio, un gruppo di bambini ci si è avvicinato chiedendoci aiuto: uno di loro era caduto, giocando, dallo scheletro di un camion e si era fatto male a una gamba, piangeva e non riusciva a camminare. Siamo rientrate in ufficio per chiedere al nostro tutor come comportarci, in Italia avremmo portato il bambino al pronto soccorso molto probabilmente… lui invece ci ha detto di non metterci in mezzo a queste faccende, altrimenti non ne saremmo mai uscite. Siamo tornate dai ragazzi che, vedendoci il tutor alle nostre spalle, hanno iniziato a dire “pas problème, il peut marché”. L’hanno alzato e se ne sono andati divertiti, ringraziandoci, mentre il bambino continuava a zoppicare affaticato. Ce ne siamo andate chiedendoci se stava bene davvero o se avremmo dovuto aiutarlo. In questo caso qualcuno ci ha prese, mentre stavamo “cadendo”.

Credo di aver scritto cose che chiunque abbia fatto un viaggio in un paese del Sud del mondo prima o poi vive, cose non banali ma ovvie ai miei occhi, per la mia esperienza, i miei studi. Eppure, quando le vivi, c’è sempre quell’attimo in cui non sai come gestirle e in cui fai tutto il contrario di ciò che ragionevolmente avevi sempre pensato. Davanti a tutto questo rimango spiazzata: devo imparare a gestire queste situazioni, o forse in fondo questa sensazione non è un male, perché significa che non sono caduta nell’indifferenza?


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